Le sedie sono uno strano specchio. Ci sostiamo sopra per ore, ci appoggiamo, ci aggrappiamo. Eppure, se le osserviamo con attenzione, raccontano più di quanto crediamo. Svelano il nostro modo di occupare lo spazio, di lavorare, di pensare. Bruno Munari diceva che “progettare una sedia significa progettare il corpo che la userà”. Non era solo un’affermazione sul design industriale, ma un invito a capire che ogni sedia plasma chi la occupa: impone posture, suggerisce durate, stabilisce distanze e intimità.

Secondo noi, ogni gesto è progettazione, anche scegliere su cosa sedersi, e osservare le sedie significa leggere la nostra stessa postura culturale. Per questo abbiamo creato una piccola mappa semiseria (ma metodica) che attraversa storia del design e psicologia dell’abitare.

1. La sedia “visite brevi o brevissime” di Bruno Munari

Munari la progettò nel 1945 come provocazione concettuale. Una seduta in ferro inclinata in avanti, dalla postura sospettosa e leggermente scomoda, per “visite brevi o brevissime”: l’ospite si siede, ma non si rilassa ed anzi scivola: va da sé che non si dilunga. Un oggetto di design è anche dichiarazione psicologica e di critica sociale. È la sedia di chi lavora con efficienza chirurgica, un minuto in più sarebbe una sessione di psicologia applicata. Se potesse parlare, direbbe: “L’uscita è per di qua.”

2. La Panton Chair di Verner Panton

Progettata nel 1960 ma prodotta in serie solo nel 1967, è la prima sedia in plastica stampata in un unico pezzo. Icona pop del design danese anni Sessanta, unisce forma scultorea e funzione, con la sua silhouette a S che rivoluzionò l’estetica delle sedute. È la sedia dalla postura flessuosa di chi si adatta a ogni cambiamento, ma sempre con stile. È esposta al MoMA di New York come capolavoro di design organico e industriale. Se potesse parlare, direbbe: “Mi piego, ma non mi spezzo.”

3. La Eames Lounge Chair di Charles e Ray Eames

Disegnata nel 1956, è la poltrona lounge più iconica al mondo. Legno curvato, pelle nera, postura rilassata ma con un’innata superiorità. Nata per offrire “il calore e il comfort di un guanto da baseball ben consumato”, oggi è il trono di chi possiede almeno tre volumi di teoria critica e sa citare Rem Koolhaas a memoria, sempre con un gin tonic a portata di mano. Se potesse parlare direbbe: “Sto lavorando anche quando sembro in pausa.”

4. La Aeron Chair di Herman Miller

Progettata da Don Chadwick e Bill Stumpf nel 1994, la Aeron Chair è la regina dell’ergonomia contemporanea. Realizzata in rete traspirante, senza imbottitura superflua, offre regolazioni infinite ed è diventata simbolo dello smart working globale e dell’estetica tech office. Se potesse parlare, direbbe: “La mia schiena, prima di tutto.”

Perché anche la sedia parla

Ogni sedia è un manifesto personale: di potere, di comfort, di stile. Osservarla con metodo, come facciamo con gli spazi di lavoro, significa capire chi siamo e chi vogliamo essere. In fondo, è questo il significato del progettare: interpretare i dettagli per creare ambienti che ci rispecchino davvero. Ed è qui che entra in gioco il metodo Altis: analizzare ogni scelta, anche quella apparentemente più banale, per trasformarla in un gesto consapevole e coerente con il modo in cui abitiamo.