Sedie che si girano, scrivanie senza confini e la promessa di un brainstorming perenne. Così è stato venduto l’open space: la soluzione definitiva per rendere le aziende più collaborative, dinamiche, “cool”. E invece? Nella realtà la colonna sonora è fatta di rumore, distrazioni, telefonate in vivavoce e cuffie noise-cancelling come unica forma di autodifesa.
L’open space è diventato lo standard, ma non per questo funziona sempre. Anzi… spesso è vero il contrario.

Il mito della collaborazione perpetua
Negli anni Novanta e Duemila, gli open space hanno incarnato un’idea quasi utopica di ufficio: nessun muro, nessuna barriera, solo colleghi pronti a condividere idee come se fossero caramelle. In teoria, la formula sarebbe: più prossimità = più collaborazione. In pratica, più prossimità = più pausa caffè e chiacchiera. Il mito dell’interazione spontanea si è spesso trasformato in una trappola: l’open plan non garantisce scambio, ma interruzioni.
Rumore bianco o rumore nero?
Il problema non è solo organizzativo, ma cognitivo. Ogni interruzione spezza quelli che possiamo chiamare “cicli attentivi”: uno studio recente di Toggl Blog segnala che servono in media 23 minuti per recuperare la concentrazione persa dopo una distrazione. Moltiplichiamolo per dieci micro-distrazioni al giorno ed è chiaro perché i phone booth sono diventati lo status-symbol dell’open space. La promessa di energia collettiva si trasforma facilmente in rumore bianco, quando va bene, o in rumore nero, quello che brucia tempo e pazienza.
Non open vs closed, ma plural
Il punto non è scegliere tra muri o spazi aperti. La questione è più sottile e sta nel progettare spazi che rispettino i diversi registri cognitivi ed emotivi delle persone: c’è chi ha bisogno di isolamento per concentrarsi, chi di condivisione per generare idee, chi di movimento per trovare energia.
Qui entra in gioco il nostro approccio Emotion Based Working: leggere e progettare gli spazi a partire dalle emozioni che devono sostenere, non dal dogma architettonico del momento. Non esiste un modello unico, ma un ecosistema di possibilità. Stanze chiuse, aree ibride, angoli di privacy, zone fluide: il vero ufficio non è un dogma spaziale, ma un insieme di scelte consapevoli.
Vogliamo accettarlo o no?
L’open space è stato il simbolo di un’epoca, probabilmente passata. Lavorare bene ora significa costruire ambienti che sanno quando aprirsi e quando chiudersi. Perché, alla fine, la vera collaborazione va al di là dalla disposizione delle scrivanie: nasce dalla progettazione di uno spazio che rispetti i diversi modi di pensare e di lavorare.
Se questo tema vi intriga, scriveteci a [email protected], vi promettiamo una conversazione più stimolante di un brainstorming improvvisato davanti alla macchinetta del caffè.