Apologia del Vuoto

Viviamo nel mondo del full. Full optional, full time, fully booked. Ma è davvero una conquista o piuttosto una sottile condanna? Nell’ossessione collettiva di saturare ogni centimetro, fisico o mentale che sia, abbiamo dimenticato cosa significhi lasciare spazio. Eppure, il vuoto non è un errore di progettazione: è una scelta consapevole.

In architettura, il vuoto è quella pausa che permette allo sguardo di muoversi, al corpo di respirare, alla mente di pensare. Fuori dall’architettura, il vuoto è la condizione di possibilità di ogni cosa: pensiamo anche alla musica, dove senza pause e silenzi non avremmo melodie ma solo cacofonie indistinte.

E sì, lo sappiamo: questo non è il classico articolo da leggere velocemente tra un meeting e l’altro. È piuttosto un invito: nei prossimi paragrafi, cammineremo insieme in questo spazio indefinito con quattro suggestioni diverse, dall’arte alla filosofia, dalla musica al senso di cura, per scoprire che il vuoto, forse, è più pieno di quanto immaginiamo. Come dice Isabella Ducoli, Head of Design Altis: “In architettura, il vuoto non è assenza: è possibilità. È l’unico spazio che non devi riempire per forza, ma che ti chiede di essere attraversato.

1. Rachel Whiteread: la scultrice dell’invisibile

Rachel Whiteread, artista britannica, ha trasformato letteralmente il vuoto in materia. Le sue opere sono calchi del vuoto: riempie di resina o cemento gli spazi che normalmente restano invisibili come l’interno di una casa, di una vasca da bagno, di una libreria, restituendoci il negativo come scultura. Come a dirci che il vuoto è un pieno capovolto. Un pieno che parla di chi c’era, di cosa conteneva, di vite intere che si sono mosse dentro quei volumi. Perché, senza vuoto, nessuno spazio sarebbe davvero abitabile: non potremmo attraversarlo, viverlo, agirlo.

2. Gordon Matta-Clark: tagliare per vedere

Poi c’è Gordon Matta-Clark, architetto e artista americano degli anni Settanta, famoso per i suoi tagli radicali negli edifici abbandonati. Ne bucava le pareti per rivelarne l’interno, creando enormi ferite architettoniche che diventavano nuovi spazi di luce e di esperienza. Per Matta-Clark, il vuoto era un gesto politico: rivelava cosa c’era dentro, metteva a nudo l’essenza delle cose, e di noi stessi. A questo proposito, Isabella Ducoli commenta:“Il vuoto è un campo attivo. È ciò che succede quando togli il superfluo e lasci solo lo spazio per ciò che conta.”

3. John Cage: il suono del silenzio

Ma non bisogna per forza sporcarsi le mani di calcestruzzo o impugnare una sega circolare per capire il vuoto. John Cage, compositore americano, ci ha insegnato che anche il silenzio è pieno di suono. Nel 1952 compose 4’33”, un brano in cui l’esecutore non suona alcuna nota. Sono quattro minuti e trentatré secondi di apparente silenzio in cui, in realtà, si ascolta tutto: i colpi di tosse, le sedie che scricchiolano, la pioggia sul tetto, il respiro di chi è in sala. Cage ci ricorda che il vuoto è sempre pieno di qualcosa: basta saperlo ascoltare.

4. La prospettiva Altis: il vuoto come cura

Se tutto intorno a noi è ipersaturo, il vuoto si presenta come un gesto radicale di cura. Vuoto come digital detox, come spazio mentale, come atto progettuale che rinuncia al superfluo per lasciare ciò che conta davvero: aria, luce, respiro. È la piazza tra i palazzi, che non è solo un interstizio urbano ma un luogo di incontro e socialità. È la radura nel bosco sacro, che nelle tradizioni scintoiste giapponesi diventa cornice per il divino, spazio sacro proprio perché vuoto. È il giardino Zen, che non offre nulla di superfluo se non la sua stessa essenzialità, e proprio per questo diventa metafora di contemplazione e meditazione.

Parlare di vuoto come cura significa riconoscere che non abbiamo bisogno di riempire ogni spazio per farlo esistere. Anzi, il vuoto è la riserva di possibilità, il campo di tutte le trasformazioni potenziali. E soprattutto, come ci racconta Isabella: “Il vuoto è l’ultimo lusso rimasto: uno spazio che non devi giustificare, che esiste per farti esistere meglio.”


Sedie: anatomia semiseria di una scelta progettuale

Le sedie sono uno strano specchio. Ci sostiamo sopra per ore, ci appoggiamo, ci aggrappiamo. Eppure, se le osserviamo con attenzione, raccontano più di quanto crediamo. Svelano il nostro modo di occupare lo spazio, di lavorare, di pensare. Bruno Munari diceva che “progettare una sedia significa progettare il corpo che la userà”. Non era solo un’affermazione sul design industriale, ma un invito a capire che ogni sedia plasma chi la occupa: impone posture, suggerisce durate, stabilisce distanze e intimità.

Secondo noi, ogni gesto è progettazione, anche scegliere su cosa sedersi, e osservare le sedie significa leggere la nostra stessa postura culturale. Per questo abbiamo creato una piccola mappa semiseria (ma metodica) che attraversa storia del design e psicologia dell’abitare.

1. La sedia “visite brevi o brevissime” di Bruno Munari

Munari la progettò nel 1945 come provocazione concettuale. Una seduta in ferro inclinata in avanti, dalla postura sospettosa e leggermente scomoda, per “visite brevi o brevissime”: l’ospite si siede, ma non si rilassa ed anzi scivola: va da sé che non si dilunga. Un oggetto di design è anche dichiarazione psicologica e di critica sociale. È la sedia di chi lavora con efficienza chirurgica, un minuto in più sarebbe una sessione di psicologia applicata. Se potesse parlare, direbbe: “L’uscita è per di qua.”

2. La Panton Chair di Verner Panton

Progettata nel 1960 ma prodotta in serie solo nel 1967, è la prima sedia in plastica stampata in un unico pezzo. Icona pop del design danese anni Sessanta, unisce forma scultorea e funzione, con la sua silhouette a S che rivoluzionò l’estetica delle sedute. È la sedia dalla postura flessuosa di chi si adatta a ogni cambiamento, ma sempre con stile. È esposta al MoMA di New York come capolavoro di design organico e industriale. Se potesse parlare, direbbe: “Mi piego, ma non mi spezzo.”

3. La Eames Lounge Chair di Charles e Ray Eames

Disegnata nel 1956, è la poltrona lounge più iconica al mondo. Legno curvato, pelle nera, postura rilassata ma con un’innata superiorità. Nata per offrire “il calore e il comfort di un guanto da baseball ben consumato”, oggi è il trono di chi possiede almeno tre volumi di teoria critica e sa citare Rem Koolhaas a memoria, sempre con un gin tonic a portata di mano. Se potesse parlare direbbe: “Sto lavorando anche quando sembro in pausa.”

4. La Aeron Chair di Herman Miller

Progettata da Don Chadwick e Bill Stumpf nel 1994, la Aeron Chair è la regina dell’ergonomia contemporanea. Realizzata in rete traspirante, senza imbottitura superflua, offre regolazioni infinite ed è diventata simbolo dello smart working globale e dell’estetica tech office. Se potesse parlare, direbbe: “La mia schiena, prima di tutto.”

Perché anche la sedia parla

Ogni sedia è un manifesto personale: di potere, di comfort, di stile. Osservarla con metodo, come facciamo con gli spazi di lavoro, significa capire chi siamo e chi vogliamo essere. In fondo, è questo il significato del progettare: interpretare i dettagli per creare ambienti che ci rispecchino davvero. Ed è qui che entra in gioco il metodo Altis: analizzare ogni scelta, anche quella apparentemente più banale, per trasformarla in un gesto consapevole e coerente con il modo in cui abitiamo.


Lavoriamo per le emozioni. Ma loro lavorano per noi?

Le emozioni sono ovunque. Nei gesti involontari, nel tono di un’email, negli sguardi durante le riunioni. Eppure, quando si parla di lavoro, restano confinate alla sfera delle soft skill. Empatia, intelligenza emotiva, gestione dello stress. Belle parole, troppo spesso ridotte a postille su un elenco di perfomance individuale.

Ma se fossimo davanti a un cambio di tendenza, se il modo in cui sentiamo fosse parte integrante del modo in cui lavoriamo? Questa domanda non nasce dalla filosofia, ma dalla psicologia cognitiva, dalle neuroscienze, dall’antropologia organizzativa. Che ci dicono, con chiarezza, che emozione e cognizione sono la stessa cosa: senza la prima, non esiste nemmeno la seconda.

Emotional Based Working

Da Altis la chiamiamo EBW: Emotional Based Working. Non è un modello già impacchettato, ma un campo di esplorazione che stiamo mappando attraverso la nostra Ricerca Proprietaria. Nasce dall’evidenza che nessuno spazio, processo o cultura aziendale possa funzionare davvero se non considera la dimensione emotiva come risorsa strategica.

Il contrario di ABW? No, il suo completamento. Se l’Activity Based Working organizza spazi e tempi intorno a cosa facciamo, l’Emotional Based Working li organizza intorno a come ci sentiamo. Insieme, raccontano il lavoro per come è davvero: un sistema complesso di attività, relazioni, stati emotivi, posture fisiche e narrative culturali.

Perché le emozioni contano davvero

Le emozioni sono ciò che ci permette di prendere decisioni rapide, di valutare rischi, di creare connessioni, di progettare con senso. Il neuroscienziato Antonio Damasio l’ha scritto decenni fa: “We are not thinking machines that feel, we are feeling machines that think.”

Progettare per le emozioni significa pensare ambienti belli, funzionali, ma soprattutto capaci di attivare stati emotivi coerenti con i processi che supportano. Significa riconoscere che un certo tipo di luce, temperatura, rumore, disposizione spaziale, può innescare irritazione o creatività, stanchezza o concentrazione.

Dall’attività all’emozione: la prossima frontiera

Nella nostra ultima esplorazione editoriale ci siamo chiesti: l’ABW è ancora il modello migliore? La risposta è emersa chiara: pensiamo che non basti. Da solo, non è sufficiente a leggere la complessità del lavoro contemporaneo. Per farlo, serve un passo in avanti: perché non sono solo le attività a definire il lavoro, ma anche le emozioni che le muovono, le sostengono, le trasformano. Ecco la materia prima del lavoro umano.


ABW: modello vincente o idea del passato? È tempo di ripensare il paradigma

Nel 1994 l’ingegnere olandese Erik Veldhoen, precursore dello smart working per come lo conosciamo oggi, pubblica “The Demise of the Office”: non la solita lamentela sulla frenesia del lunedì mattina a lavoro, ma un vero manifesto. Un attacco al modello d’ufficio standardizzato, impersonale, rigido. E da lì in poi l’ufficio, almeno sulla carta, non è più lo stesso: Nasce il modello ABW - Activity Based Working, che mette al centro l’attività: se devi concentrarti, ti siedi da solo; se devi collaborare, cerchi un open space; se devi chiamare il commercialista (o tua madre), vai nella phone booth. Finalmente, uno spazio che si adatta a ciò che fai. Fine della storia? Non proprio.

Sono passati trent’anni. Nel frattempo sono arrivati internet, le nuove forme di leadership, il Covid, la vivace Gen Z con i loro gesti di protesta, e il ritorno delle piante in ufficio. Eppure, in molte realtà, l’ABW viene ancora trattato come il punto d’arrivo. Ma siamo sicuri che lo sia davvero?

L’ABW ha funzionato. Ma noi non siamo più quelli di prima

L’ABW è stato rivoluzionario, non lo nega nessuno. Ha portato maggiore flessibilità, più efficienza nell’uso degli spazi, un boost in creatività e collaborazione. Ma oggi lavoriamo ovunque, non solo dove c’è una scrivania. Le nostre attività si mescolano agli stati d’animo, ai fusi orari, alle notifiche di Slack e agli sbalzi di serotonina. Non siamo più solo “frazioni operative”. Siamo individui stanchi, curiosi, sovraccarichi, in cerca di senso. E qui l’ABW comincia a mostrare i suoi limiti. Perché oggi servono anche altre tipologie di spazi: per ricaricarsi, connettersi ed esistere, anche quando non stai facendo niente di "produttivo".

Dall’attività all’emozione

A furia di progettare spazi per le attività, ci siamo dimenticati chi le attività le compie: le persone. Con i loro corpi, le loro storie, i loro livelli di energia e le loro fragilità. E se il nuovo paradigma fosse proprio questo? Un modello che non sostituisce l’ABW, ma lo completa. Un modello che parte da una domanda diversa: “Come si sente oggi chi lavora qui?” Siamo nel tempo del lavoro ibrido, del benessere psicologico al centro, della relazione come motore produttivo. Lo dicono anche McKinsey e la neuroscienza, non solo noi di Altis. Forse è il momento di iniziare a pensare spazi che:
– facilitino la regolazione emotiva, non solo il multitasking
– generino fiducia e appartenenza, non solo “zone di collaborazione”
– accolgano la complessità dell’umano, non solo il suo calendar

Non serve buttare via tutto: serve un cambio di sguardo

L’ABW ci ha portato lontano. Ma oggi la sfida è un’altra. Perché chi entra in uno spazio oggi cerca più di una scrivania, cerca un contesto che lo capisca. E se oggi fosse il tempo dell'emotional based working? Un invito ad ascoltare le emozioni che abitano lo spazio, e a progettare non solo per ciò che si fa, ma per ciò che si è. Questo è solo l’inizio.

Se la domanda ti sembra pertinente, o anche se sei solo curioso, scrivici a [email protected]. Ci piace parlare con chi ha voglia di cambiare punto di vista.


Questione di timing: quando il metodo incontra il momento giusto

Tutti parlano di metodologia, ma pochi parlano del tempo che serve per applicarla davvero. Nel nostro settore, quello degli spazi di lavoro, dell’architettura, della cultura aziendale, il tempo è spesso vissuto come una corsa a ostacoli. O tutto subito, o tutto in ritardo. La metodologia Altis nasce proprio per superare questa dicotomia: non rincorrere le scadenze, ma governarle. Perché quando il metodo è solido, il tempo diventa un alleato.

La metodologia Altis

Altis funziona per sintonizzazione. Prima osserva, poi agisce. Prima ascolta, poi disegna. Prima comprende, poi cambia le regole del gioco. Perché ogni progetto ha una frequenza diversa, e il nostro lavoro è intercettarla prima di definire tempi, passi e direzione.

Il nome che abbiamo dato è: Consult – Design – Deliver. Certo suona bene, ma soprattutto è un metodo vivo. Consult significa aprire una conversazione senza preconcetti: facciamo domande, osserviamo il contesto, incontriamo le persone, dal Ceo al giovane Manager. Design è il momento in cui pensiero, dati ed empatia diventano progetto. Co-creiamo scenari, traduciamo intuizioni in layout, mettiamo in dialogo esigenze e visioni: anche un semplice workshop può cambiare una planimetria. Deliver è molto più di una consegna: è lasciare un impatto che duri, perché ogni spazio che creiamo è anche una dichiarazione culturale ed è importante che le persone che lo abitano lo riconoscano come proprio e lo vivano con naturalezza.

Nel nostro metodo ci sono strumenti, certo. Ma anche pause. Ci sono analisi e rincorse, ma anche momenti di proficua stasi. Sono tutte tappe necessarie. E se può sembrare una perdita di tempo, per noi è l’unico modo per non perderlo davvero, quel tempo.

Il vantaggio competitivo? Sta nella sensibilità

Nel mondo del Real Estate il tempo è una variabile critica: se sei in ritardo con la costruzione, arrivano le penali; se l’ufficio non è pronto, paghi doppio affitto. Tutto ruota intorno alla time sensitivity, eppure è uno dei settori che più fatica a rispettarla davvero. Altis parte proprio da qui, garantendo progetti solidi, puntuali e centrati sul brief. Se c’è un budget, lo rispettiamo. Se c’è una deadline, ci arriviamo preparati. Non si tratta solo di efficienza: si tratta di progettare tenendo conto dei vincoli reali di chi ci affida uno spazio e delle conseguenze concrete di ogni ritardo, in termini economici e organizzativi.

Saper leggere il tempo, per noi, significa questo: capire dove è possibile accelerare, dove è meglio prendersi una pausa di verifica, e dove serve semplicemente lasciare che l’idea maturi. Non è flessibilità: è progettazione consapevole, di quelle che innestano un vero cambiamento.

On Time, On Budget. Ovunque

Altis lavora oggi in diversi Paesi, collaborando con team locali per adattare il metodo alle specificità culturali, normative e operative di ogni contesto. È così che riusciamo a mantenere la nostra promessa: restare on time e on budget senza rinunciare alla qualità progettuale. Perché per noi la posta in gioco è sempre la stessa: dare forma a uno spazio che funzioni come noi, insieme al cliente, avevamo immaginato.

Se sei curioso di sapere come abbiamo aiutato altri clienti prima di te, consulta il nostro sito www.altis-project.com o scrivici a [email protected]


Apple Campus: anatomia di un’icona. Ovvero, l’etica dietro la facciata

Tutti lo conoscono, ma nessuno lo ha davvero vissuto. L’Apple Campus a Cupertino è la cattedrale laica del XXI secolo: 260 mila metri quadri, un anello perfetto disegnato da Norman Foster, pannelli curvi in vetro ovunque, e un messaggio chiarissimo: qui dentro il futuro ha già bussato da un pezzo. Ma dietro questa perfezione geometrica che mima staticamente una forma organica, una domanda sorge spontanea: un’architettura impeccabile basta a raccontare una cultura del lavoro? O, per dirla meglio: una facciata può contenere tutte le contraddizioni di chi ci lavora dentro? Probabilmente, no.

Non è (solo) una questione di bellezza

L’Apple Campus è un monumento alla performance: open space ampi, spazi immacolati, luce diffusa. Il tutto progettato per favorire quelle “collisioni creative” tra dipendenti tanto care a Steve Jobs, lo stesso che, ai tempi di Pixar, aveva proposto un unico blocco di bagni centrali per costringere i team a incrociarsi fisicamente più volte al giorno (idea poi bocciata dalla dirigenza). Un principio portato all’estremo anche nella forma ad anello dell’Apple Park. Ma lo sapevate che, appena è stato aperto, molti team hanno chiesto di restare nei vecchi uffici? O che, post-pandemia, proprio Apple è stata tra le più rigide nel pretendere il rientro in sede, sollevando polemiche interne? È qui che la narrazione si incrina. Perché quando l’involucro è più forte dell’esperienza, l’architettura diventa rappresentazione. E basta.

Attenzione: oltre la forma serve coerenza

Un luogo, per funzionare, non deve solo essere bello: deve essere vero. La sede dice qualcosa, ma se chi ci lavora non la sente sua, il messaggio si svuota. E non si tratta nemmeno di Apple in sé, il problema è sistemico: è il mito che l’ambiente possa sostituire la cultura. Che basti “disegnare” un modo di lavorare per farlo funzionare. Il punto non è rinunciare all’ambizione o all’estetica. Al contrario: vanno messe al servizio dell’esperienza concreta delle persone. Perché se l’architettura non dialoga con chi abita lo spazio ogni giorno, resta una mera superficie. E oggi più che mai serve meno facciata e più profondità. Meno culto dell’oggetto, più etica del progetto. Dalle icone si impara, eccome. Ma le icone non vanno copiate, vanno interpretate. Per fare un ufficio bello, serve un architetto. Per fare un ufficio che funzioni, serve anche un metodo.

Ecco perché ci piacciono le icone: sono ottimi spunti da mettere in discussione. Se ti va di parlarne, scrivici a [email protected] [email protected].

 


Los Angeles e cosa resta dopo un incendio: uno spazio, o l'emozione?

Come molti ricorderanno, a gennaio, Los Angeles è stata vittima di un potente incendio, una catastrofe che ha segnato e ridisegnato la città, distruggendo oltre 10.000 edifici. Ma questi luoghi erano molto più di semplici strutture. Il linguaggio dell'architettura suggerisce come viviamo emotivamente gli spazi che abitiamo e come ne siamo trasformati. Ciò che mutuiamo dai bar all'angolo, dai ristoranti che ci nutrono, dagli uffici e co-working che ci ospitano, sono impressioni sensoriali, il che significa che quando quei luoghi vengono distrutti, anche una parte di noi se ne va.

Progettare per rassicurare, non solo per resistere

Sirene, evacuazioni, fumo. Chi resta, e ne esce illeso, sospende tutto: si incrina l’idea di continuità, quella su cui si regge il senso del quotidiano. E a quel punto la stabilità vacilla. Negli ultimi anni abbiamo imparato a parlare di spazi resilienti, flessibili, adattabili. Ma in situazioni come queste, non basta resistere. Serve rassicurare. Lo spazio fisico, anche quello condiviso, temporaneo, decentralizzato, può offrire più di una buona connessione Wi-Fi. Può diventare un contenitore emotivo, un punto fermo in cui ritrovare un po’ di ordine dentro il caos. Non è questione di estetica o arredamento, ma di intenzione progettuale: luce che non abbaglia, volumi che non schiacciano, suoni che non invadono. Design che ascolta, senza alzare la voce.

Ufficio Cognitivo: quando lo spazio tiene insieme

Non è un’utopia. È un nuovo standard possibile. Uno spazio che non si limita a contenere la produttività, ma accoglie la vulnerabilità, anche quando parliamo di una città che, in termini di superficie, rappresenta la più grande regione metropolitana degli Stati Uniti. Perché lo spazio non è solo un contenitore. È un alleato mentale. E nei momenti di fragilità collettiva, può diventare una delle poche cose che restano.

Non immaginatevi stanze zen con tè al matcha. È piuttosto un approccio progettuale che parte dalla domanda: “Cosa serve alla mente per potersi mettere o rimettere in moto?” Perché a differenza di strade e linee elettriche, i ricordi, così come i progetti, le speranze, i sogni non sono facili da ripristinare. “Form follows function”: la forma, si dice, segue la funzione. È una regola progettuale con cui conviviamo da sempre. Ma in casi come questo, quella funzione non è più solo operativa. È emotiva, percettiva, profonda. Qui, è la funzione a dover seguire l’emozione. E per rispondere alla domanda iniziale, serve un luogo di ascolto. Di decompressione. Di riorientamento.

On time, on budget. Ovunque

Quando attorno a noi tutto vacilla, che sia per un incendio o più semplicemente l’assordante rumore di fondo dell’incertezza quotidiana, non è la performance a salvarci. È la possibilità di sentirci ancora connessi, accolti, parte di qualcosa. Per questo, oggi, progettare uno spazio non vuol dire solo ottimizzare. Deve voler dire prendersi cura. E in fondo, progettare fiducia. È questa la lente che usiamo in Altis: un approccio psicosociale che parte dalle persone, dalle loro tensioni, dai loro bisogni impliciti. Non disegniamo spazi solo per lavorare bene, ma per stare bene anche quando lavorare può diventare difficile.

Di questo, e tanto altro, potete leggere in maniera più approfondita sul nostro sito, nella parte dedicata alla Ricerca Proprietaria Altis.


Dimenticate i benefit: la Gen Z vuole un (vero) motivo per restare

Non basta il tavolo da ping-pong. Né lo yoga sul rooftop, né la scritta “People First” sulla parete. La Generazione Z non è in cerca di benefit. È in cerca di senso. E la cosa più spiazzante? Non vogliono “cambiare il mondo” (spoiler: a quello ci pensano già il cambiamento climatico e i mutui a tasso variabile), hanno semplicemente smesso di cercare il posto fisso in cambio del posto giusto. La questione è semplice: se devo passare otto ore al giorno da qualche parte, voglio sapere perché. E voglio che il “perché” sia vero, non incorniciato in un manifesto aziendale polveroso o nascosto in un buono Deliveroo.

Le frasi che non ti aspetti (ma che forse dovresti conoscere)

“Io voglio restare in azienda. Se trovo un posto che mi tratta bene, non lo mollo.” (Chi l’ha detto? Francesco, 25 anni, ingegnere informatico. Ama Excel, odia i manager passivo-aggressivi.)

“Non ho bisogno di lavorare in costume da bagno. Mi va bene anche in ufficio, ma che sia umano.” (Chi l’ha detto? Chiara, 24 anni, marketing assistant. Ha smesso di credere nei “team building in barca” al secondo meeting su Zoom.)

“Voglio crescere professionalmente. Ma non a scapito della mia salute mentale.” (Chi l’ha detto? Edoardo, 23 anni, consulente. Medita ogni mattina. Ha mollato il fantomatico “posto fisso” perché l’aveva inchiodato alla scrivania.)

Cosa dicono i dati? (oltre a quello che vi ha già detto il vostro stagista)

Secondo studi recenti, la Generazione Z sta smontando, pezzo dopo pezzo, il vecchio modello di posto fisso. I segnali? Abbastanza chiari da far tremare i neon a soffitto:

  • La Gen Z è già la generazione più rappresentata negli spazi di lavoro. Entro il 2030, costituirà il 30% della forza lavoro globale. Non è un pubblico “futuro”: è già qui.
  • Il 78% preferisce ambienti ibridi, ma ben progettati. E no, la sala riunioni con le luci a led non conta
  • Solo il 30% si sente coinvolto dal proprio ambiente fisico di lavoro. Tradotto: il restante 70% costretto in una stanzetta con un middle manager sul collo, sta già dando le dimissioni
  • Cercano autenticità, scelte sostenibili, flessibilità reale. E spazi che diano un motivo per restare piuttosto che uno per fuggire.

La questione “salario adeguato” l’abbiamo già citata? In effetti, ci sarebbe anche quella. Morale della favola: non vogliono un’azienda diversa. Vogliono un patto più onesto.

Ok, ma quindi?

Serve meno paternalismo, più fiducia. Meno chiacchiere sulla resilienza, più ascolto reale. Meno ci prendiamo cura di te, più: dicci davvero che cosa ti serve. Cercano luoghi che parlino la lingua della coerenza, della trasparenza e, sì, anche della gentilezza.

Chi oggi riesce a progettare culture e ambienti così (flessibili ma chiari, caldi ma strutturati) si sta già portando avanti. Il resto? Può pure continuare a riempire l’ufficio di pouf colorati. Ma poi non si lamenti se nessuno resta seduto.

Curiosi di capire se il vostro ufficio parla alla Gen Z? Provate a rispondere a queste domande:

  • C’è flessibilità vera o giusto il venerdì da casa?
  • Lo spazio è progettato per lavorare bene o è solo arredato con un divano carino?
  • I valori si leggono solo nei muri o c’è coerenza nei gesti?
  • Si può scegliere dove lavorare dentro l’ufficio? where to work in the office
  • Community o obbligo sociale?
  • Il verde c'è davvero o è rappresentato solo da una cactus all'ingresso?
  • Il management ascolta, o dice di ascoltare?

Se, leggendole, avete alzato gli occhi al cielo più volte, il problema non è la Gen Z. Il problema è che state ancora cercando di trattenerli con i buoni pasto. Invece, potreste iniziare con una domanda semplice: “Se oggi avessi 24 anni, resterei in questo ufficio?” Se la risposta è no, è il momento di fare spazio. Ma quello giusto.


Dalle sale riunioni a quelle per gli eventi: anche nel mondo della finanza è suonata la sveglia

Se vi dicessimo che uno dei settori più statici, formali, incravattati del mondo sta ripensando i propri uffici, cosa pensereste? È difficile da immaginare, eppure è così: il mondo delle banche, degli asset manager e delle società di consulenza si sta scrollando di dosso la moquette blu e la liturgia da report trimestrale per entrare in un’era nuova. Più fluida. Più vera.

Il nuovo mantra è adattabilità. Oggi gli uffici del settore finanziario iniziano ad assomigliare a set polifunzionali: uno spazio la mattina è usato per una riunione strategica, il pomeriggio ospita un workshop interno, la sera diventa il palco per un talk pubblico o un aperitivo con uno startup partner. Il perché è semplice: non si lavora più solo per fare. Si lavora anche per connettersi. E in un’epoca in cui i talenti evaporano appena sentono aria stantia, anche Goldman Sachs capisce che lo spazio fisico è uno strumento di relazione, non solo di controllo.

Ma, nella finanza, come si riconosce un ufficio che funziona nel 2025?

  • Le scrivanie fisse sono un ricordo. Un po’ come i Blackberry
  • Le pareti si muovono, i layout si riconfigurano. Il mindset? Anche
  • Le sale non sono più riunioni.Sono relazioni:tra colleghi, reparti, partner e talenti che non si fanno incantare da un badge dorato
  • La tecnologia serve per connettere, non solo per elaborare dati
  • E soprattutto: c’è luce. C’è cura. C’è identità

Dalle sedi milanesi delle big four agli headquarters parigini dei grandi gruppi bancari, la parola d’ordine sarà sempre di più trasformabilità. Lo vediamo negli hub digitali nati post-pandemia. Nei piani terra che diventano piazze aziendali. Negli spazi eventi che strizzano l’occhio tanto al branding quanto alla retention. In fondo, un ambiente che si adatta, si apre, si trasforma, è come un buon investimento: rende nel tempo. E attira chi ha capito dove stare.

Caso studio: Il nuovo HQ di JP Morgan Chase a New York

JP Morgan sta costruendo il suo nuovo headquarters al 270 di Park Avenue, New York, e lo chiariamo fin da subito: non è un ufficio, è una dichiarazione d’intenti. Un grattacielo da sessanta piani che sostituisce la vecchia sede, pensato per incarnare il futuro del lavoro in finanza. Cosa c’è di interessante?

  • Spazi flessibili, modulari, adatti a eventi, collaborazione, focus
  • Piani riconfigurabili. Nessuna postazione fissa. Aree comuni che favoriscono l'incontro spontaneo e la serendipity,incluse terrazze verdi, spazi wellness, auditorium interni
  • Sostenibilità integrata: sarà uno degli HQ più green di Manhattan, con consumo energetico inferiore del 30% rispetto agli standard
  • Design pro-trasparenza: open floor plan, niente gerarchie spaziali visibili. Il management sta dentro, non sopra

Chi pensa che il workplace sia solo per HR, non ha capito niente. Nel 2025, lo spazio fisico è branding. È leadership. E se anche chi gestisce i soldi veri ha capito che senza cultura non c’è capitale umano, il workplace torna prepotentemente al centro. Ma non come cornice. Come strumento strategico.

Se vuoi saperne di più su come trasformare il tuo spazio di lavoro in un vantaggio competitivo, contattaci a [email protected]


Ripensare il lavoro, migliorare il quotidiano: benvenuti nella Ricerca Altis

Cominciamo da una verità scomoda: passiamo più tempo in ufficio che a letto. E no, non è una metafora moderna. È statistica pura. Tuttavia, mentre il lavoro si è trasformato più volte di Madonna negli anni Novanta, il modo in cui progettiamo gli spazi in cui lavoriamo è rimasto spesso ancorato a modelli superati. La Ricerca Altis nasce per questo: per smettere di rincorrere “trend” da LinkedIn e iniziare a osservare il lavoro per quello che è davvero. E per come potrebbe essere.

Un laboratorio vivo, fatto di architetti, analisti, ricercatori, project manager e (sì) anche persone comuni, che ogni giorno entrano in un ufficio. La nostra idea? Usare la scienza per migliorare l’esperienza del lavoro. Ma senza perdere il diritto alla leggerezza che, come diceva Calvino: “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”. Perché il lavoro è una cosa seria, ma prenderlo sul serio non significa ingessarlo. Significa capire cosa funziona davvero, cosa stimola il cervello (e cosa lo spegne), cosa rende un team affiatato, cosa abbassa lo stress, cosa attiva la creatività.

Raccogliamo dati e testimonianze, mettiamo in discussione idee preconfezionate, e il risultato è un portale di contenuti, articoli, insight e provocazioni che raccontano il posto di lavoro… come non è mai stato fatto fino a oggi. Senza frasi motivazionali da planner del lunedì mattina. Senza mitizzare lo smart working come se bastasse lavorare in tuta per essere felici. La Ricerca Altis è qui per guardare in faccia il lavoro contemporaneo: un osservatorio per chi progetta spazi, ma anche per chi li abita, li subisce, li trasforma. Perché il nostro obiettivo non è solo analizzare il lavoro. È riscriverlo, con chi ha il coraggio di immaginarlo diverso.

Lo spazio di lavoro non è neutro (spoiler: no, non lo è mai stato)

Secondo i dati raccolti, quasi il 90% delle persone intervistate ritiene che lo spazio di lavoro influisca direttamente sul proprio benessere. E non solo: il modo in cui ci muoviamo in ufficio, le interazioni che attiviamo, perfino i percorsi inconsci che scegliamo per andare verso l’area break dicono molto più di quanto pensiamo su come lavoriamo (e viviamo). La Ricerca Altis parte da una premessa semplice: non si può progettare uno spazio senza osservare chi lo abita. E lo fa con strumenti rigorosi—interviste, dati biometrici, behavioural mapping—ma anche con una domanda molto umana: “Come ti senti, qui dentro?”. Dallo studio dei pattern comportamentali emergono insight utilissimi: ad esempio, aree nate per la collaborazione che vengono utilizzate per trovare isolamento, oppure angoli informali che diventano epicentro dell’innovazione spontanea. Perché lo spazio parla. E se lo si ascolta bene, può diventare alleato del benessere e della performance. Altis lo fa ispirandosi anche al PERMA Model della psicologia positiva, che individua cinque dimensioni fondamentali del benessere umano: Emozioni positive, Coinvolgimento, Relazioni, Significato, Realizzazione. Già troppi concetti? Forse, ma il nostro obiettivo è rendere questi elementi tanto desiderabili quanto realizzabili.

La produttività non si compra a ore con pacchetti promozionali

No, non siamo sempre meno produttivi. Siamo solo sempre più compressi. Tra notifiche, deadline e riunioni-fiume, ci si dimentica che il cervello non è un muscolo da palestra, ma un sistema complesso che ha bisogno di pause e stimolazioni. E invece ci ostiniamo a trattarlo come una calcolatrice da spremere fino all’ultimo impulso neurale. Ma la verità è che i momenti di inattività non sono tempo perso: sono tempo metabolico. Ecco perché nella nostra ricerca abbiamo analizzato i benefici reali di spazi non strutturati: zone in cui l’assenza di funzione è essa stessa la funzione. Downshifting, decompressione, micro-pause: lo si chiami come si vuole, ma resta il fatto che i team che hanno accesso a spazi informali si dichiarano più lucidi, più connessi e meno stressati. E no, non è solo una questione di design: è una questione di ritmo. O meglio, come direbbe qualsiasi musicista jazz: non è solo quello che suoni. È anche quello che lasci in silenzio.

Dalla ricerca al confronto: un dialogo interdisciplinare

Ci teniamo a dirlo, le riflessioni della Ricerca Altis non si fermano certo a belle parole. Lo scorso 21 marzo, in occasione del Conscious Cities Festival alla Triennale di Milano, abbiamo affrontato questi temi in un confronto aperto con neuroscienziati, architetti, designer e filosofi durante l’evento Regrounding: Reconnecting Bodies & Space. Un pomeriggio di scambi e provocazioni che ha reso visibile (e tangibile) ciò che da tempo osserviamo nei dati: non si può più parlare di progetto senza parlare di corpo, attenzione, percezione. Tra gli speaker, la Dottoressa Nicoletta Brancaccio, curatrice dell’evento e voce autorevole nella riflessione sul ruolo empatico e neurologico dello spazio. Un’occasione preziosa per confermare, ancora una volta, che il futuro del lavoro non è solo una questione di efficienza. È una questione di presenza, relazione e intenzionalità.

Lo avrete capito, non siamo qui per dare risposte comode. Siamo qui per fare domande scomode—con metodo, con ironia, con curiosità vera. Perché il modo in cui lavoriamo ha un impatto enorme su come pensiamo, come ci relazioniamo, come immaginiamo il futuro. E poiché stiamo uscendo da anni di modelli rigidi e finti paradigmi su produttività e disconnessione, allora è il momento di chiedersi: che tipo di lavoro (e ufficio) vogliamo progettare, se il lavoro (e l’ufficio) è dove passiamo gran parte della vita? Scopriamolo insieme.