Siete pronti per una nuova era del lavoro?

Settembre: voce del verbo “ricominciare”, ovvero il momento perfetto per rimettere sotto la lente un concetto che da anni fa scuola, l’Activity Based Working (ABW). Bello, flessibile, motivante… sulla carta. Ma cosa succede oggi, nel pieno di realtà ibride e generazioni che vivono il lavoro in modo sempre più soggettivo ed emancipato?

L’avete già notato anche voi, qualche crepa si vede. E visto che, come si suol dire “tre indizi fanno una prova”, abbiamo estrapolato tre dati chiave dalla Ricerca Proprietaria Altis che dimostrano perché è il momento di ripensare il modello così come lo conosciamo.

Primo indizio: dalla flessibilità alla dispersione

L’ABW nasceva con una promessa: più libertà, meno scrivanie fisse, più collaborazione. Ma la realtà post-pandemica ci ha restituito un paradosso: il 55% dei Gen Z dichiara di sentirsi solo o in difficoltà a costruire relazioni sociali ( McKinsey). Se l’ufficio non funziona anche come un collante umano, la flessibilità rischia di trasformarsi in dispersione, perché più libertà non equivale automaticamente a più benessere.

Secondo indizio: produttività sì, ma fino a un certo punto

Gli studi sull’ABW mostrano miglioramenti nell’attività fisica e nella soddisfazione, ma anche piccoli cali di produttività. Insomma, ci muoviamo di più, stiamo meglio… ma lavoriamo davvero meglio? È il classico trade-off: l’ambiente favorisce interazione e movimento, ma senza un disegno calibrato sulle persone, rischia di rallentare i processi invece di accelerarli.

Terzo indizio: il ROI non è più solo immobiliare

Per anni l’ABW è stato adottato per ridurre le postazioni e ottimizzare i metri quadri. Oggi, però, parlare di ROI significa guardare oltre l’occupancy: salute mentale, engagement, qualità delle interazioni. In un mondo ibrido, il vero valore dello spazio non è “quante scrivanie risparmi”, ma “quante connessioni generi”.

La prova: un passo avanti con l’EBW

Ecco perché in Altis parliamo di Emotional Based Working. Non un semplice acronimo da proporre all’Accademia della Crusca, ma un approccio solido, basato sui dati e sulle persone. Alla base c’è la nostra Ricerca Proprietaria, che esplora la relazione tra spazio e comportamento, indagando come l’ambiente fisico influenzi lo stato emotivo e le dinamiche sociali all’interno di un ufficio. È così che ogni progetto si fonda su evidenze scientifiche e su una reale comprensione di come lo spazio possa migliorare benessere e produttività.

Perché il lavoro di oggi è basato sulle emozioni piuttosto che sulla sola attività. Ed è tempo di progettare luoghi che lo riflettano, senza nostalgia per i vecchi modelli, e cogliere un’importante intuizione: il prossimo “upgrade” del lavoro non sarà solo tecnologico, ma anche emotivo.

Il resto della storia? Scriveteci a [email protected]. Ve la raccontiamo. [email protected]. We’ll tell you more.


Quando l’architettura smette di assecondarci

Siamo abituati a pensare allo spazio come a un alleato fedele: ti accoglie, ti protegge, ti facilita la vita. È la narrazione dominante dell’architettura contemporanea: “user-friendly” e “human-centred”. Ma se invece così non fosse? Se l’architettura fosse anch’essa piena di limiti, costrizioni e compromessi? 

Per poi scoprire che forse è proprio lì che si apre un varco creativo.

Lo spazio non è nostro schiavo

Abbiamo chiesto agli edifici di essere sempre più accomodanti: silenziosi quando serve concentrazione, flessibili quando serve collaborazione, persino “emozionanti” dai render in poi. Ma questa rincorsa all’architettura-servizio rischia di diventare sterile. Uno spazio efficace non è per forza una entità servizievole: a volte è un interlocutore. Che esprime un'opinione, o ci invita ad esperire una forma diversa dell’abitare. Pensiamo alle scale del MAXXI di Roma, o alla loft-mania che ha riqualificato l’intero quartiere di Soho a Manhattan. Spazi servizievoli? Tutt’altro. Spazi utili? Assolutamente si. Una costruzione può obbligarci a immaginare soluzioni diverse. E anche in questo può stare il suo valore.

L’attrito come risorsa

Un corridoio troppo stretto, un’ombra che cade sempre nel punto sbagliato, un materiale che invecchia più in fretta del previsto: fastidi? Forse. Ma anche stimoli. Perché l’attrito non è solo disagio: è la resistenza che ci costringe a muoverci, a cambiare traiettoria, a inventare nuove soluzioni. Abitare è sempre negoziare: se vogliamo il parquet di rovere, sappiamo che per forza si rovinerà col tempo. Non esiste altra soluzione fra materiale naturale e vita quotidiana: quel materiale porterà i segni del nostro passaggio.

Contro l’illusione del “tailor-made”

Viviamo nell’epoca della personalizzazione estrema, ma lo spazio non deve sempre replicare questa logica. L’illusione del “su misura” totale rischia di ridurre l’architettura a un’applicazione di comfort. Un ufficio che non ci coccola in ogni momento può diventare invece palestra di resilienza, stimolo a confrontarsi, terreno fertile per conflitti che generano nuove idee.

Non si tratta di una rinuncia alla funzione, ma un’apertura al conflitto creativo. Accettare che lo spazio non ci appartenga del tutto, che sia qualcosa con cui dobbiamo dialogare, anche scontrarci, significa restituirgli dignità e profondità. Perché è dal confronto che nascono le trasformazioni più radicali.


La mappa non è il territorio (ma ci aiuta a capirlo bene)

Lo diceva Gregory Bateson, padre del pensiero sistemico: “la mappa non è il territorio”. Ma senza mappe ci perdiamo: anche se non coincide con la realtà, la mappa, per definizione, è quella che ci permette di leggerla e interpretarla. E di muoverci al suo interno con consapevolezza. Il nostro lavoro in Altis non è solo disegnare un ufficio esteticamente bello, ma costruire strumenti che aiutino a orientarsi in uno spazio sempre più complesso, fatto di persone, comportamenti, regole, budget, emozioni…

"Consult-design-deliver": il metodo step by step di Altis, che non si limita al “progetto”, ma accompagna il cliente dall’ascolto fino alla consegna con la certezza che se si vuole trasformare davvero un ambiente di lavoro, non basta il rendering. Serve una mappatura intelligente, accessibile e rigorosa.

Pensiero sistemico: prima capiamo come funziona, poi cosa fare

Ogni spazio di lavoro è un ecosistema vivo. Non esiste un cambiamento isolato: se sposti il layout, cambiano i flussi; se cambi i flussi, cambiano i comportamenti; se cambiano i comportamenti, si trasformano performance, costi e perfino cultura aziendale. È l’effetto domino del lavoro contemporaneo. Per questo partiamo sempre da una lettura sistemica. Chiedere solo “quanti metri quadri vi servono?” risulta quindi riduttivo, epistemologicamente scorretto, per dirla come il maestro.

Fase 1: CONSULT — Osservare il territorio

La fase di Consult è la nostra esplorazione del territorio, dove raccogliamo dati. Kick-off e Needs Analysis ci servono per inquadrare sfide e opportunità. L’Occupancy Study ci dice chi usa cosa, quando e come. Con il Rapid Prototyping testiamo soluzioni in piccolo per trovare conferme in grande. E con la Building Analysis & Test-Fit capiamo che cosa è davvero realizzabile, rispettando ogni tipo di vincolo tecnico e normativo. Alla fine tutto confluisce nel Business Case, non il classico documento ma una bussola: ti dice dove ha senso investire, dove ridurre e come distribuire le risorse in modo intelligente.

Fase 2: DESIGN — Disegnare la mappa, modellando i comportamenti

Il Design non serve a rendere bello un ambiente: serve a fare nudge dei comportamenti desiderati. Il Concept Design traduce valori e obiettivi in linee guida concrete. Il Design Development affina le scelte, mentre il Technical Design le rende “cantierabili”. L’arredo non è scenografia: è strumento funzionale che orienta pratiche quotidiane. In parallelo, il Progressive Budgeting rende trasparente l’evoluzione dei costi: niente sorprese finali, ma scelte progressivamente misurate. Infine, il Contract definisce gli accordi in modo chiaro: budget, tempi e responsabilità. Qui la mappa è pronta, ed è dettagliata: non un’utopia, ma un documento operativo che tiene insieme estetica, funzione e sostenibilità economica.

Fase 3: DELIVER — Dal cantiere alle persone (con un controllo puntuale)

La fase di Deliver è quella in cui la mappa guida la costruzione del nuovo territorio. Qui non basta “costruire bene”: serve controllo continuo e capacità di gestire complessità. Permessi, procurement, sicurezza, costruzione, logistica dei traslochi: ogni passaggio viene monitorato con un controllo progressivo dei costi, che permette di intervenire subito in caso di deviazioni. C’è poi il tema più spesso trascurato: il Change Management. Perché gli spazi non cambiano nulla se le persone non li abitano diversamente. Comunicare, accompagnare, ascoltare: sono leve progettuali tanto quanto una parete divisoria o una scrivania regolabile.

Funziona? I dati dicono di sì.

Il metodo Altis funziona perché rompe lo schema tradizionale “a silos”: consulenti che passano la palla ai progettisti, che la passano agli acquisti, che infine la danno al general contractor. Ogni passaggio fa perdere tempo, informazioni e controllo. Noi uniamo tutto in un processo end-to-end, in cui i dati raccolti in fase di analisi restano vivi fino alla consegna finale. Il risultato è misurabile: tempi ridotti fino al 25%, budget rispettato, meno rischi. Ma soprattutto, progetti che hanno senso non solo sulla carta, ma nel quotidiano delle persone che li abitano.

Il metodo Altis nasce per accompagnare la complessità: ascoltare, modellare, testare, consegnare. Un passo alla volta, con le persone al centro. Se volete vedere la nostra mappa applicata al vostro territorio, scriveteci a: [email protected]


Architetti per l’estate: 5 maestri da portare sotto l’ombrellone

C'è chi in valigia mette un romanzo d’amore, chi un giallo, chi le parole crociate. Noi, cinque architetti. Nessun manuale tecnico, promesso. Solo un po’ di forma mentis da infilare tra l’asciugamano e la crema protezione 50. Zaha Hadid, Frank Lloyd Wright, Renzo Piano, Tadao Ando e Bjarke Ingels: cinque nomi che non suonano esattamente come una band estiva, ma che, ognuno a modo suo, hanno riscritto il nostro modo di abitare lo spazio. Del resto, che cos’è l’estate se non una bozza di vita con meno vincoli e più luce naturale?

Zaha Hadid: sbagliare con stile

Niente righello, né simmetrie. Solo curve, tensioni fluide e un pizzico di caos creativo. Zaha Hadid ci ha insegnato che si può essere radicali e glamour, sbilanciati e monumentali. I suoi edifici sembrano surfare sull’asfalto, con un’ostinazione visionaria che ha piegato cemento, software e pregiudizi. Ecco quindi uno spunto utile: l’imperfezione è una firma. E ogni angolo acuto può nascondere una grande intuizione.

Frank Lloyd Wright: fare spazio alla natura

La casa sulla cascata, il pavimento che “segue” il paesaggio, i muri che scompaiono. Wright ha costruito non sul territorio, ma con il territorio. Ha disegnato la prima vera casa moderna e l’ha messa a respirare nella foresta. Perché l’ambiente non è uno sfondo. È un co-protagonista. Se lo ignori, prima o poi ti presenta il conto (anche in bolletta).

Renzo Piano: equilibrio, modularità e pazienza

L’uomo che ha messo le rotelle ai musei (Pompidou) e la leggerezza al cemento (Centro Botín). Renzo Piano è il maestro del dettaglio invisibile, della tecnologia che non si vede, dell’architettura come ingegneria poetica. Come lui ci insegna, il progetto perfetto è quello che sembra semplice, ma ci sono voluti venticinque prototipi per arrivarci.

Tadao Ando: silenzio in cemento armato

Ex pugile, autodidatta, poeta del minimalismo. Tadao Ando scolpisce la luce, più che gli edifici. Ha reso spirituale anche il calcestruzzo, costruendo templi del vuoto e della quiete. Senza girarci intorno: a volte, togliere qualcosa è l’unico modo per far emergere l’essenziale (e questo vale anche con le notifiche silenziate del telefono).

Bjarke Ingels: l’archistar che gioca con i LEGO

La montagna artificiale, il condominio-pista da sci, il masterplan a forma di panda: niente è troppo per BIG (Bjarke Ingels Group). Ingels mescola ecologia, ironia e marketing senza farsene un problema. Ha capito che il futuro si costruisce anche pensando al tempo libero. D’altronde se la sostenibilità non diverte, non funziona. E un tocco di umorismo, spesso, è l’ingrediente segreto di un buon progetto.

Alla fine, lo sappiamo tutti: l’architettura è ovunque. Anche sotto l’ombrellone, tra una granita, un castello di sabbia e un pensiero laterale. E questi cinque maestri ci ricordano che progettare non è (solo) costruire. È scegliere come stare nel mondo, anche ad agosto.


Ma cosa fa il tuo ufficio quando tutti sono in ferie?

La notizia shock è che no, non avvia sessioni di meditazione guidata. Ma potrebbe insegnarti qualcosa. 

Sento l’eco. Il frigorifero è vuoto. Il badge ha smesso di suonare. La macchinetta del caffè non emette più quei versi. Ma io resto qui. Guardo il sole che disegna geometrie sulle scrivanie vuote. A custodire le piante, vere e finte. A chiedermi: perché sono stato progettato per il tempo pieno, se nessuno ha pensato a quello vuoto?

Misurare l’assenza per progettare in presenza

Ogni agosto si ripete la stessa scena: uffici vuoti, sale riunioni abbandonate, metri quadri che nessuno abita. Ma attenzione: non è un’anomalia, è un’opportunità. I momenti di underuse sono un indicatore importante, e se sai dove guardare, ti dicono esattamente come (non) funziona il tuo spazio.

Chi occupa cosa? Quando? Per quanto? E soprattutto: perché alcuni ambienti restano deserti anche quando l’ufficio è pieno? Monitorare l’uso degli spazi (flussi, picchi, tempi di permanenza, distribuzione delle attività) permette di passare dal “ci sembra che” al “sappiamo bene che”. E di farlo proprio quando il rumore della routine lascia spazio all’osservazione.

L’analisi dei dati, in questi casi, non serve a giustificare una scelta fatta, ma a guidarne una futura: aiuta a capire dove investire davvero, dove ridistribuire risorse, dove serve meno spazio (e dove, magari, ne serve di migliore). Perché il ROI di un ufficio non si misura solo sulla base di quante persone ci lavorano, ma su quanto valore genera anche quando non lo fa nessuno.

Lo spazio che funziona anche quando non serve

Un buon progetto ascolta. Accoglie le fluttuazioni, prevede gli assenti, crea valore anche nel silenzio. È lì che entra in gioco il design adattivo: arredi mobili, ambienti riconfigurabili. Progettare pensando anche al vuoto (ai momenti in cui lo spazio rallenta e si trasforma) è una forma di intelligenza operativa, il modo più concreto per garantire che lo spazio sia davvero vivo, in ogni momento.

Un ufficio ben pensato non è solo un contenitore di persone, ma un sistema elastico, reattivo, capace di funzionare in tutte le sue varianti: picco, media, down. E anche down-down, come succede ad agosto. È proprio quando tutto si ferma che l’ambiente mostra la sua vera natura. Se resta flessibile, accogliente, coerente anche con le cinque persone rimaste dentro (nemmeno fossero beta-tester), allora hai capito come farlo funzionare davvero. E per chi ancora si interroga, Altis è qui per te: scrivici a [email protected]


Out of office: consigli per un vero digital detox

Hai detto: “vado in ferie”. Hai impostato l’out of office. Hai caricato tre libri sul Kindle. Eppure sei ancora lì: un occhio al tramonto, l’altro alle notifiche. Se ti riconosci, non sei solo. Succede a molti. Perché non è semplicemente questione di disconnettere un telefono: dobbiamo spegnere un’intera cultura. Lo abbiamo capito parlando con Nicoletta Brancaccio, Architetto & Head of Research di Altis, che ci ha aiutati ad esplorare gli elementi di questo paradosso “estivo”: perché facciamo fatica a staccare, e come lo spazio, mentale e fisico, può aiutarci a farlo meglio.

Spoiler: non abbiamo pozioni magiche o moralismi da fornire. Solo un'indagine sui meccanismi che ci inchiodano allo schermo... utile per riconoscerli quando si presenta l'occasione.

Il cervello non ama fermarsi

Scollegarsi richiede uno sforzo attivo, perché va contro il modo in cui siamo programmati. Il nostro cervello è attratto da stimoli e notifiche continui: ognuno una micro-ricompensa, una piccola dose di dopamina istantanea. Spegnere tutto equivale a togliere l’ossigeno a un’abitudine sedimentata. Ma c’è di più. Come ci ricorda Nicoletta: “Disconnettersi non significa non fare nulla. Significa mettersi nelle condizioni di elaborare qualcosa di nuovo. È una pausa attiva, non passiva.” In altre parole, il detox non è uno stop, ma un cambio di marcia. Il momento in cui si attivano forme di pensiero laterale: soluzioni creative che emergono quando usciamo dagli schemi consueti. Non a caso, le migliori idee arrivano durante una passeggiata o sotto l'ombrellone: il momento è quello giusto!

Quando il disturbo è una buona notizia

Lo spazio può aiutarci a staccare, ma può anche renderlo più difficile. La verità, dice Nicoletta, è che “non serve spegnere il Wi-Fi: serve attivare la curiosità. E per farlo, a volte, occorre disturbare. Non nel senso di creare disagio, ma nel senso di rompere lo schema, sorprendere.” È così che si apre uno spiraglio: nasce un’attenzione nuova, si crea un’emozione imprevista. “Il disturbo non è una disfunzione, è una leva generativa.” Gli spazi troppo simmetrici, monotoni, prevedibili finiscono per spegnerci. Mentre la luce che cambia intensità, la geometria non ortogonale o un corridoio che si biforca hanno la capacità di riattivarci. Ma per progettarli serve consapevolezza: meno arredi instagrammabili, più linguaggi multisensoriali che solleticano continuamente l’attenzione.

Il vuoto non è tempo perso: è tempo fertile

“Per rigenerarsi davvero, serve attraversare una soglia. E quella soglia è fatta di noia, vuoto, silenzio.” Nicoletta ci ricorda una cosa poco intuitiva: i momenti morti servono. Sono una fase necessaria, uno spazio intermedio in cui il cervello smette di reagire e comincia a riorganizzare: pensieri, ricordi, emozioni. Un tempo che non produce subito, ma prepara il terreno. Peccato che nessuno ce lo insegni: perché questo accada, dobbiamo rallentare ma, soprattutto sentirci autorizzati a farlo. Ed ecco l'inghippo: viviamo in una cultura della performance. Anche nel tempo libero: vacanze iper-organizzate, sveglia per la mindfulness, to-do list di cose da fare. Il vuoto è il tempo della incubazione, ma occorre accoglierlo per trarne i benefici.

Nessuno qui sta suggerendo di scagliare lo smartphone dalla finestra (anche se è quasi irresistibile). Non serve sparire, ma capire da dove ricominciare. Il detox non è solo una pausa dal Wi-Fi o una sfida a chi resiste di più senza aprire WhatsApp, ma una “forma di lucidità applicata” più corporea, e relazionale. “Ogni gesto parte da un’intenzione. Anche l’empatia è un’attivazione intenzionale. Ecco perché serve progettare ambienti che non solo ci ospitano, ma ci ascoltano.” In fondo, siamo esseri naturali. E la natura, come ci ricorda Nicoletta, “è la forma più alta di imperfezione intelligente”. È tempo di ispirarsi a lei. E magari iniziare con piccoli passi: tipo finire di leggere questo articolo e andare a godersi quel tramonto dal vivo.


Apologia del Vuoto

Viviamo nel mondo del full. Full optional, full time, fully booked. Ma è davvero una conquista o piuttosto una sottile condanna? Nell’ossessione collettiva di saturare ogni centimetro, fisico o mentale che sia, abbiamo dimenticato cosa significhi lasciare spazio. Eppure, il vuoto non è un errore di progettazione: è una scelta consapevole.

In architettura, il vuoto è quella pausa che permette allo sguardo di muoversi, al corpo di respirare, alla mente di pensare. Fuori dall’architettura, il vuoto è la condizione di possibilità di ogni cosa: pensiamo anche alla musica, dove senza pause e silenzi non avremmo melodie ma solo cacofonie indistinte.

E sì, lo sappiamo: questo non è il classico articolo da leggere velocemente tra un meeting e l’altro. È piuttosto un invito: nei prossimi paragrafi, cammineremo insieme in questo spazio indefinito con quattro suggestioni diverse, dall’arte alla filosofia, dalla musica al senso di cura, per scoprire che il vuoto, forse, è più pieno di quanto immaginiamo. Come dice Isabella Ducoli, Head of Design Altis: “In architettura, il vuoto non è assenza: è possibilità. È l’unico spazio che non devi riempire per forza, ma che ti chiede di essere attraversato.

1. Rachel Whiteread: la scultrice dell’invisibile

Rachel Whiteread, artista britannica, ha trasformato letteralmente il vuoto in materia. Le sue opere sono calchi del vuoto: riempie di resina o cemento gli spazi che normalmente restano invisibili come l’interno di una casa, di una vasca da bagno, di una libreria, restituendoci il negativo come scultura. Come a dirci che il vuoto è un pieno capovolto. Un pieno che parla di chi c’era, di cosa conteneva, di vite intere che si sono mosse dentro quei volumi. Perché, senza vuoto, nessuno spazio sarebbe davvero abitabile: non potremmo attraversarlo, viverlo, agirlo.

2. Gordon Matta-Clark: tagliare per vedere

Poi c’è Gordon Matta-Clark, architetto e artista americano degli anni Settanta, famoso per i suoi tagli radicali negli edifici abbandonati. Ne bucava le pareti per rivelarne l’interno, creando enormi ferite architettoniche che diventavano nuovi spazi di luce e di esperienza. Per Matta-Clark, il vuoto era un gesto politico: rivelava cosa c’era dentro, metteva a nudo l’essenza delle cose, e di noi stessi. A questo proposito, Isabella Ducoli commenta:“Il vuoto è un campo attivo. È ciò che succede quando togli il superfluo e lasci solo lo spazio per ciò che conta.”

3. John Cage: il suono del silenzio

Ma non bisogna per forza sporcarsi le mani di calcestruzzo o impugnare una sega circolare per capire il vuoto. John Cage, compositore americano, ci ha insegnato che anche il silenzio è pieno di suono. Nel 1952 compose 4’33”, un brano in cui l’esecutore non suona alcuna nota. Sono quattro minuti e trentatré secondi di apparente silenzio in cui, in realtà, si ascolta tutto: i colpi di tosse, le sedie che scricchiolano, la pioggia sul tetto, il respiro di chi è in sala. Cage ci ricorda che il vuoto è sempre pieno di qualcosa: basta saperlo ascoltare.

4. La prospettiva Altis: il vuoto come cura

Se tutto intorno a noi è ipersaturo, il vuoto si presenta come un gesto radicale di cura. Vuoto come digital detox, come spazio mentale, come atto progettuale che rinuncia al superfluo per lasciare ciò che conta davvero: aria, luce, respiro. È la piazza tra i palazzi, che non è solo un interstizio urbano ma un luogo di incontro e socialità. È la radura nel bosco sacro, che nelle tradizioni scintoiste giapponesi diventa cornice per il divino, spazio sacro proprio perché vuoto. È il giardino Zen, che non offre nulla di superfluo se non la sua stessa essenzialità, e proprio per questo diventa metafora di contemplazione e meditazione.

Parlare di vuoto come cura significa riconoscere che non abbiamo bisogno di riempire ogni spazio per farlo esistere. Anzi, il vuoto è la riserva di possibilità, il campo di tutte le trasformazioni potenziali. E soprattutto, come ci racconta Isabella: “Il vuoto è l’ultimo lusso rimasto: uno spazio che non devi giustificare, che esiste per farti esistere meglio.”


Sedie: anatomia semiseria di una scelta progettuale

Le sedie sono uno strano specchio. Ci sostiamo sopra per ore, ci appoggiamo, ci aggrappiamo. Eppure, se le osserviamo con attenzione, raccontano più di quanto crediamo. Svelano il nostro modo di occupare lo spazio, di lavorare, di pensare. Bruno Munari diceva che “progettare una sedia significa progettare il corpo che la userà”. Non era solo un’affermazione sul design industriale, ma un invito a capire che ogni sedia plasma chi la occupa: impone posture, suggerisce durate, stabilisce distanze e intimità.

Secondo noi, ogni gesto è progettazione, anche scegliere su cosa sedersi, e osservare le sedie significa leggere la nostra stessa postura culturale. Per questo abbiamo creato una piccola mappa semiseria (ma metodica) che attraversa storia del design e psicologia dell’abitare.

1. La sedia “visite brevi o brevissime” di Bruno Munari

Munari la progettò nel 1945 come provocazione concettuale. Una seduta in ferro inclinata in avanti, dalla postura sospettosa e leggermente scomoda, per “visite brevi o brevissime”: l’ospite si siede, ma non si rilassa ed anzi scivola: va da sé che non si dilunga. Un oggetto di design è anche dichiarazione psicologica e di critica sociale. È la sedia di chi lavora con efficienza chirurgica, un minuto in più sarebbe una sessione di psicologia applicata. Se potesse parlare, direbbe: “L’uscita è per di qua.”

2. La Panton Chair di Verner Panton

Progettata nel 1960 ma prodotta in serie solo nel 1967, è la prima sedia in plastica stampata in un unico pezzo. Icona pop del design danese anni Sessanta, unisce forma scultorea e funzione, con la sua silhouette a S che rivoluzionò l’estetica delle sedute. È la sedia dalla postura flessuosa di chi si adatta a ogni cambiamento, ma sempre con stile. È esposta al MoMA di New York come capolavoro di design organico e industriale. Se potesse parlare, direbbe: “Mi piego, ma non mi spezzo.”

3. La Eames Lounge Chair di Charles e Ray Eames

Disegnata nel 1956, è la poltrona lounge più iconica al mondo. Legno curvato, pelle nera, postura rilassata ma con un’innata superiorità. Nata per offrire “il calore e il comfort di un guanto da baseball ben consumato”, oggi è il trono di chi possiede almeno tre volumi di teoria critica e sa citare Rem Koolhaas a memoria, sempre con un gin tonic a portata di mano. Se potesse parlare direbbe: “Sto lavorando anche quando sembro in pausa.”

4. La Aeron Chair di Herman Miller

Progettata da Don Chadwick e Bill Stumpf nel 1994, la Aeron Chair è la regina dell’ergonomia contemporanea. Realizzata in rete traspirante, senza imbottitura superflua, offre regolazioni infinite ed è diventata simbolo dello smart working globale e dell’estetica tech office. Se potesse parlare, direbbe: “La mia schiena, prima di tutto.”

Perché anche la sedia parla

Ogni sedia è un manifesto personale: di potere, di comfort, di stile. Osservarla con metodo, come facciamo con gli spazi di lavoro, significa capire chi siamo e chi vogliamo essere. In fondo, è questo il significato del progettare: interpretare i dettagli per creare ambienti che ci rispecchino davvero. Ed è qui che entra in gioco il metodo Altis: analizzare ogni scelta, anche quella apparentemente più banale, per trasformarla in un gesto consapevole e coerente con il modo in cui abitiamo.


Lavoriamo per le emozioni. Ma loro lavorano per noi?

Le emozioni sono ovunque. Nei gesti involontari, nel tono di un’email, negli sguardi durante le riunioni. Eppure, quando si parla di lavoro, restano confinate alla sfera delle soft skill. Empatia, intelligenza emotiva, gestione dello stress. Belle parole, troppo spesso ridotte a postille su un elenco di perfomance individuale.

Ma se fossimo davanti a un cambio di tendenza, se il modo in cui sentiamo fosse parte integrante del modo in cui lavoriamo? Questa domanda non nasce dalla filosofia, ma dalla psicologia cognitiva, dalle neuroscienze, dall’antropologia organizzativa. Che ci dicono, con chiarezza, che emozione e cognizione sono la stessa cosa: senza la prima, non esiste nemmeno la seconda.

Emotional Based Working

Da Altis la chiamiamo EBW: Emotional Based Working. Non è un modello già impacchettato, ma un campo di esplorazione che stiamo mappando attraverso la nostra Ricerca Proprietaria. Nasce dall’evidenza che nessuno spazio, processo o cultura aziendale possa funzionare davvero se non considera la dimensione emotiva come risorsa strategica.

Il contrario di ABW? No, il suo completamento. Se l’Activity Based Working organizza spazi e tempi intorno a cosa facciamo, l’Emotional Based Working li organizza intorno a come ci sentiamo. Insieme, raccontano il lavoro per come è davvero: un sistema complesso di attività, relazioni, stati emotivi, posture fisiche e narrative culturali.

Perché le emozioni contano davvero

Le emozioni sono ciò che ci permette di prendere decisioni rapide, di valutare rischi, di creare connessioni, di progettare con senso. Il neuroscienziato Antonio Damasio l’ha scritto decenni fa: “We are not thinking machines that feel, we are feeling machines that think.”

Progettare per le emozioni significa pensare ambienti belli, funzionali, ma soprattutto capaci di attivare stati emotivi coerenti con i processi che supportano. Significa riconoscere che un certo tipo di luce, temperatura, rumore, disposizione spaziale, può innescare irritazione o creatività, stanchezza o concentrazione.

Dall’attività all’emozione: la prossima frontiera

Nella nostra ultima esplorazione editoriale ci siamo chiesti: l’ABW è ancora il modello migliore? La risposta è emersa chiara: pensiamo che non basti. Da solo, non è sufficiente a leggere la complessità del lavoro contemporaneo. Per farlo, serve un passo in avanti: perché non sono solo le attività a definire il lavoro, ma anche le emozioni che le muovono, le sostengono, le trasformano. Ecco la materia prima del lavoro umano.


ABW: modello vincente o idea del passato? È tempo di ripensare il paradigma

Nel 1994 l’ingegnere olandese Erik Veldhoen, precursore dello smart working per come lo conosciamo oggi, pubblica “The Demise of the Office”: non la solita lamentela sulla frenesia del lunedì mattina a lavoro, ma un vero manifesto. Un attacco al modello d’ufficio standardizzato, impersonale, rigido. E da lì in poi l’ufficio, almeno sulla carta, non è più lo stesso: Nasce il modello ABW - Activity Based Working, che mette al centro l’attività: se devi concentrarti, ti siedi da solo; se devi collaborare, cerchi un open space; se devi chiamare il commercialista (o tua madre), vai nella phone booth. Finalmente, uno spazio che si adatta a ciò che fai. Fine della storia? Non proprio.

Sono passati trent’anni. Nel frattempo sono arrivati internet, le nuove forme di leadership, il Covid, la vivace Gen Z con i loro gesti di protesta, e il ritorno delle piante in ufficio. Eppure, in molte realtà, l’ABW viene ancora trattato come il punto d’arrivo. Ma siamo sicuri che lo sia davvero?

L’ABW ha funzionato. Ma noi non siamo più quelli di prima

L’ABW è stato rivoluzionario, non lo nega nessuno. Ha portato maggiore flessibilità, più efficienza nell’uso degli spazi, un boost in creatività e collaborazione. Ma oggi lavoriamo ovunque, non solo dove c’è una scrivania. Le nostre attività si mescolano agli stati d’animo, ai fusi orari, alle notifiche di Slack e agli sbalzi di serotonina. Non siamo più solo “frazioni operative”. Siamo individui stanchi, curiosi, sovraccarichi, in cerca di senso. E qui l’ABW comincia a mostrare i suoi limiti. Perché oggi servono anche altre tipologie di spazi: per ricaricarsi, connettersi ed esistere, anche quando non stai facendo niente di "produttivo".

Dall’attività all’emozione

A furia di progettare spazi per le attività, ci siamo dimenticati chi le attività le compie: le persone. Con i loro corpi, le loro storie, i loro livelli di energia e le loro fragilità. E se il nuovo paradigma fosse proprio questo? Un modello che non sostituisce l’ABW, ma lo completa. Un modello che parte da una domanda diversa: “Come si sente oggi chi lavora qui?” Siamo nel tempo del lavoro ibrido, del benessere psicologico al centro, della relazione come motore produttivo. Lo dicono anche McKinsey e la neuroscienza, non solo noi di Altis. Forse è il momento di iniziare a pensare spazi che:
– facilitino la regolazione emotiva, non solo il multitasking
– generino fiducia e appartenenza, non solo “zone di collaborazione”
– accolgano la complessità dell’umano, non solo il suo calendar

Non serve buttare via tutto: serve un cambio di sguardo

L’ABW ci ha portato lontano. Ma oggi la sfida è un’altra. Perché chi entra in uno spazio oggi cerca più di una scrivania, cerca un contesto che lo capisca. E se oggi fosse il tempo dell'emotional based working? Un invito ad ascoltare le emozioni che abitano lo spazio, e a progettare non solo per ciò che si fa, ma per ciò che si è. Questo è solo l’inizio.

Se la domanda ti sembra pertinente, o anche se sei solo curioso, scrivici a [email protected]. Ci piace parlare con chi ha voglia di cambiare punto di vista.