Los Angeles e cosa resta dopo un incendio: uno spazio, o l'emozione?

Come molti ricorderanno, a gennaio, Los Angeles è stata vittima di un potente incendio, una catastrofe che ha segnato e ridisegnato la città, distruggendo oltre 10.000 edifici. Ma questi luoghi erano molto più di semplici strutture. Il linguaggio dell'architettura suggerisce come viviamo emotivamente gli spazi che abitiamo e come ne siamo trasformati. Ciò che mutuiamo dai bar all'angolo, dai ristoranti che ci nutrono, dagli uffici e co-working che ci ospitano, sono impressioni sensoriali, il che significa che quando quei luoghi vengono distrutti, anche una parte di noi se ne va.

Progettare per rassicurare, non solo per resistere

Sirene, evacuazioni, fumo. Chi resta, e ne esce illeso, sospende tutto: si incrina l’idea di continuità, quella su cui si regge il senso del quotidiano. E a quel punto la stabilità vacilla. Negli ultimi anni abbiamo imparato a parlare di spazi resilienti, flessibili, adattabili. Ma in situazioni come queste, non basta resistere. Serve rassicurare. Lo spazio fisico, anche quello condiviso, temporaneo, decentralizzato, può offrire più di una buona connessione Wi-Fi. Può diventare un contenitore emotivo, un punto fermo in cui ritrovare un po’ di ordine dentro il caos. Non è questione di estetica o arredamento, ma di intenzione progettuale: luce che non abbaglia, volumi che non schiacciano, suoni che non invadono. Design che ascolta, senza alzare la voce.

Ufficio Cognitivo: quando lo spazio tiene insieme

Non è un’utopia. È un nuovo standard possibile. Uno spazio che non si limita a contenere la produttività, ma accoglie la vulnerabilità, anche quando parliamo di una città che, in termini di superficie, rappresenta la più grande regione metropolitana degli Stati Uniti. Perché lo spazio non è solo un contenitore. È un alleato mentale. E nei momenti di fragilità collettiva, può diventare una delle poche cose che restano.

Non immaginatevi stanze zen con tè al matcha. È piuttosto un approccio progettuale che parte dalla domanda: “Cosa serve alla mente per potersi mettere o rimettere in moto?” Perché a differenza di strade e linee elettriche, i ricordi, così come i progetti, le speranze, i sogni non sono facili da ripristinare. “Form follows function”: la forma, si dice, segue la funzione. È una regola progettuale con cui conviviamo da sempre. Ma in casi come questo, quella funzione non è più solo operativa. È emotiva, percettiva, profonda. Qui, è la funzione a dover seguire l’emozione. E per rispondere alla domanda iniziale, serve un luogo di ascolto. Di decompressione. Di riorientamento.

Progettare fiducia

Quando attorno a noi tutto vacilla, che sia per un incendio o più semplicemente l’assordante rumore di fondo dell’incertezza quotidiana, non è la performance a salvarci. È la possibilità di sentirci ancora connessi, accolti, parte di qualcosa. Per questo, oggi, progettare uno spazio non vuol dire solo ottimizzare. Deve voler dire prendersi cura. E in fondo, progettare fiducia. È questa la lente che usiamo in Altis: un approccio psicosociale che parte dalle persone, dalle loro tensioni, dai loro bisogni impliciti. Non disegniamo spazi solo per lavorare bene, ma per stare bene anche quando lavorare può diventare difficile.

Di questo, e tanto altro, potete leggere in maniera più approfondita sul nostro sito, nella parte dedicata alla Ricerca Proprietaria Altis.


Dimenticate i benefit: la Gen Z vuole un (vero) motivo per restare

Non basta il tavolo da ping-pong. Né lo yoga sul rooftop, né la scritta “People First” sulla parete. La Generazione Z non è in cerca di benefit. È in cerca di senso. E la cosa più spiazzante? Non vogliono “cambiare il mondo” (spoiler: a quello ci pensano già il cambiamento climatico e i mutui a tasso variabile), hanno semplicemente smesso di cercare il posto fisso in cambio del posto giusto. La questione è semplice: se devo passare otto ore al giorno da qualche parte, voglio sapere perché. E voglio che il “perché” sia vero, non incorniciato in un manifesto aziendale polveroso o nascosto in un buono Deliveroo.

Le frasi che non ti aspetti (ma che forse dovresti conoscere)

“Io voglio restare in azienda. Se trovo un posto che mi tratta bene, non lo mollo.” (Chi l’ha detto? Francesco, 25 anni, ingegnere informatico. Ama Excel, odia i manager passivo-aggressivi.)

“Non ho bisogno di lavorare in costume da bagno. Mi va bene anche in ufficio, ma che sia umano.” (Chi l’ha detto? Chiara, 24 anni, marketing assistant. Ha smesso di credere nei “team building in barca” al secondo meeting su Zoom.)

“Voglio crescere professionalmente. Ma non a scapito della mia salute mentale.” (Chi l’ha detto? Edoardo, 23 anni, consulente. Medita ogni mattina. Ha mollato il fantomatico “posto fisso” perché l’aveva inchiodato alla scrivania.)

Cosa dicono i dati? (oltre a quello che vi ha già detto il vostro stagista)

Secondo studi recenti, la Generazione Z sta smontando, pezzo dopo pezzo, il vecchio modello di posto fisso. I segnali? Abbastanza chiari da far tremare i neon a soffitto:

  • La Gen Z è già la generazione più rappresentata negli spazi di lavoro. Entro il 2030, costituirà il 30% della forza lavoro globale. Non è un pubblico “futuro”: è già qui.
  • Il 78% preferisce ambienti ibridi, ma ben progettati. E no, la sala riunioni con le luci a led non conta
  • Solo il 30% si sente coinvolto dal proprio ambiente fisico di lavoro. Tradotto: il restante 70% costretto in una stanzetta con un middle manager sul collo, sta già dando le dimissioni
  • Cercano autenticità, scelte sostenibili, flessibilità reale. E spazi che diano un motivo per restare piuttosto che uno per fuggire.

La questione “salario adeguato” l’abbiamo già citata? In effetti, ci sarebbe anche quella. Morale della favola: non vogliono un’azienda diversa. Vogliono un patto più onesto.

Ok, ma quindi?

Serve meno paternalismo, più fiducia. Meno chiacchiere sulla resilienza, più ascolto reale. Meno ci prendiamo cura di te, più: dicci davvero che cosa ti serve. Cercano luoghi che parlino la lingua della coerenza, della trasparenza e, sì, anche della gentilezza.

Chi oggi riesce a progettare culture e ambienti così (flessibili ma chiari, caldi ma strutturati) si sta già portando avanti. Il resto? Può pure continuare a riempire l’ufficio di pouf colorati. Ma poi non si lamenti se nessuno resta seduto.

Curiosi di capire se il vostro ufficio parla alla Gen Z? Provate a rispondere a queste domande:

  • C’è flessibilità vera o giusto il venerdì da casa?
  • Lo spazio è progettato per lavorare bene o è solo arredato con un divano carino?
  • I valori si leggono solo nei muri o c’è coerenza nei gesti?
  • Si può scegliere dove lavorare dentro l’ufficio? where to work in the office
  • Community o obbligo sociale?
  • Il verde c'è davvero o è rappresentato solo da una cactus all'ingresso?
  • Il management ascolta, o dice di ascoltare?

Se, leggendole, avete alzato gli occhi al cielo più volte, il problema non è la Gen Z. Il problema è che state ancora cercando di trattenerli con i buoni pasto. Invece, potreste iniziare con una domanda semplice: “Se oggi avessi 24 anni, resterei in questo ufficio?” Se la risposta è no, è il momento di fare spazio. Ma quello giusto.


Dalle sale riunioni a quelle per gli eventi: anche nel mondo della finanza è suonata la sveglia

Se vi dicessimo che uno dei settori più statici, formali, incravattati del mondo sta ripensando i propri uffici, cosa pensereste? È difficile da immaginare, eppure è così: il mondo delle banche, degli asset manager e delle società di consulenza si sta scrollando di dosso la moquette blu e la liturgia da report trimestrale per entrare in un’era nuova. Più fluida. Più vera.

Il nuovo mantra è adattabilità. Oggi gli uffici del settore finanziario iniziano ad assomigliare a set polifunzionali: uno spazio la mattina è usato per una riunione strategica, il pomeriggio ospita un workshop interno, la sera diventa il palco per un talk pubblico o un aperitivo con uno startup partner. Il perché è semplice: non si lavora più solo per fare. Si lavora anche per connettersi. E in un’epoca in cui i talenti evaporano appena sentono aria stantia, anche Goldman Sachs capisce che lo spazio fisico è uno strumento di relazione, non solo di controllo.

Ma, nella finanza, come si riconosce un ufficio che funziona nel 2025?

  • Le scrivanie fisse sono un ricordo. Un po’ come i Blackberry
  • Le pareti si muovono, i layout si riconfigurano. Il mindset? Anche
  • Le sale non sono più riunioni.Sono relazioni:tra colleghi, reparti, partner e talenti che non si fanno incantare da un badge dorato
  • La tecnologia serve per connettere, non solo per elaborare dati
  • E soprattutto: c’è luce. C’è cura. C’è identità

Dalle sedi milanesi delle big four agli headquarters parigini dei grandi gruppi bancari, la parola d’ordine sarà sempre di più trasformabilità. Lo vediamo negli hub digitali nati post-pandemia. Nei piani terra che diventano piazze aziendali. Negli spazi eventi che strizzano l’occhio tanto al branding quanto alla retention. In fondo, un ambiente che si adatta, si apre, si trasforma, è come un buon investimento: rende nel tempo. E attira chi ha capito dove stare.

Caso studio: Il nuovo HQ di JP Morgan Chase a New York

JP Morgan sta costruendo il suo nuovo headquarters al 270 di Park Avenue, New York, e lo chiariamo fin da subito: non è un ufficio, è una dichiarazione d’intenti. Un grattacielo da sessanta piani che sostituisce la vecchia sede, pensato per incarnare il futuro del lavoro in finanza. Cosa c’è di interessante?

  • Spazi flessibili, modulari, adatti a eventi, collaborazione, focus
  • Piani riconfigurabili. Nessuna postazione fissa. Aree comuni che favoriscono l'incontro spontaneo e la serendipity,incluse terrazze verdi, spazi wellness, auditorium interni
  • Sostenibilità integrata: sarà uno degli HQ più green di Manhattan, con consumo energetico inferiore del 30% rispetto agli standard
  • Design pro-trasparenza: open floor plan, niente gerarchie spaziali visibili. Il management sta dentro, non sopra

Chi pensa che il workplace sia solo per HR, non ha capito niente. Nel 2025, lo spazio fisico è branding. È leadership. E se anche chi gestisce i soldi veri ha capito che senza cultura non c’è capitale umano, il workplace torna prepotentemente al centro. Ma non come cornice. Come strumento strategico.

Se vuoi saperne di più su come trasformare il tuo spazio di lavoro in un vantaggio competitivo, contattaci a info@altis-project.com


Ripensare il lavoro, migliorare il quotidiano: benvenuti nella Ricerca Altis

Cominciamo da una verità scomoda: passiamo più tempo in ufficio che a letto. E no, non è una metafora moderna. È statistica pura. Tuttavia, mentre il lavoro si è trasformato più volte di Madonna negli anni Novanta, il modo in cui progettiamo gli spazi in cui lavoriamo è rimasto spesso ancorato a modelli superati. La Ricerca Altis nasce per questo: per smettere di rincorrere “trend” da LinkedIn e iniziare a osservare il lavoro per quello che è davvero. E per come potrebbe essere.

Un laboratorio vivo, fatto di architetti, analisti, ricercatori, project manager e (sì) anche persone comuni, che ogni giorno entrano in un ufficio. La nostra idea? Usare la scienza per migliorare l’esperienza del lavoro. Ma senza perdere il diritto alla leggerezza che, come diceva Calvino: “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”. Perché il lavoro è una cosa seria, ma prenderlo sul serio non significa ingessarlo. Significa capire cosa funziona davvero, cosa stimola il cervello (e cosa lo spegne), cosa rende un team affiatato, cosa abbassa lo stress, cosa attiva la creatività.

Raccogliamo dati e testimonianze, mettiamo in discussione idee preconfezionate, e il risultato è un portale di contenuti, articoli, insight e provocazioni che raccontano il posto di lavoro… come non è mai stato fatto fino a oggi. Senza frasi motivazionali da planner del lunedì mattina. Senza mitizzare lo smart working come se bastasse lavorare in tuta per essere felici. La Ricerca Altis è qui per guardare in faccia il lavoro contemporaneo: un osservatorio per chi progetta spazi, ma anche per chi li abita, li subisce, li trasforma. Perché il nostro obiettivo non è solo analizzare il lavoro. È riscriverlo, con chi ha il coraggio di immaginarlo diverso.

Lo spazio di lavoro non è neutro (spoiler: no, non lo è mai stato)

Secondo i dati raccolti, quasi il 90% delle persone intervistate ritiene che lo spazio di lavoro influisca direttamente sul proprio benessere. E non solo: il modo in cui ci muoviamo in ufficio, le interazioni che attiviamo, perfino i percorsi inconsci che scegliamo per andare verso l’area break dicono molto più di quanto pensiamo su come lavoriamo (e viviamo). La Ricerca Altis parte da una premessa semplice: non si può progettare uno spazio senza osservare chi lo abita. E lo fa con strumenti rigorosi—interviste, dati biometrici, behavioural mapping—ma anche con una domanda molto umana: “Come ti senti, qui dentro?”. Dallo studio dei pattern comportamentali emergono insight utilissimi: ad esempio, aree nate per la collaborazione che vengono utilizzate per trovare isolamento, oppure angoli informali che diventano epicentro dell’innovazione spontanea. Perché lo spazio parla. E se lo si ascolta bene, può diventare alleato del benessere e della performance. Altis lo fa ispirandosi anche al PERMA Model della psicologia positiva, che individua cinque dimensioni fondamentali del benessere umano: Emozioni positive, Coinvolgimento, Relazioni, Significato, Realizzazione. Già troppi concetti? Forse, ma il nostro obiettivo è rendere questi elementi tanto desiderabili quanto realizzabili.

La produttività non si compra a ore con pacchetti promozionali

No, non siamo sempre meno produttivi. Siamo solo sempre più compressi. Tra notifiche, deadline e riunioni-fiume, ci si dimentica che il cervello non è un muscolo da palestra, ma un sistema complesso che ha bisogno di pause e stimolazioni. E invece ci ostiniamo a trattarlo come una calcolatrice da spremere fino all’ultimo impulso neurale. Ma la verità è che i momenti di inattività non sono tempo perso: sono tempo metabolico. Ecco perché nella nostra ricerca abbiamo analizzato i benefici reali di spazi non strutturati: zone in cui l’assenza di funzione è essa stessa la funzione. Downshifting, decompressione, micro-pause: lo si chiami come si vuole, ma resta il fatto che i team che hanno accesso a spazi informali si dichiarano più lucidi, più connessi e meno stressati. E no, non è solo una questione di design: è una questione di ritmo. O meglio, come direbbe qualsiasi musicista jazz: non è solo quello che suoni. È anche quello che lasci in silenzio.

Dalla ricerca al confronto: un dialogo interdisciplinare

Ci teniamo a dirlo, le riflessioni della Ricerca Altis non si fermano certo a belle parole. Lo scorso 21 marzo, in occasione del Conscious Cities Festival alla Triennale di Milano, abbiamo affrontato questi temi in un confronto aperto con neuroscienziati, architetti, designer e filosofi durante l’evento Regrounding: Reconnecting Bodies & Space. Un pomeriggio di scambi e provocazioni che ha reso visibile (e tangibile) ciò che da tempo osserviamo nei dati: non si può più parlare di progetto senza parlare di corpo, attenzione, percezione. Tra gli speaker, la Dottoressa Nicoletta Brancaccio, curatrice dell’evento e voce autorevole nella riflessione sul ruolo empatico e neurologico dello spazio. Un’occasione preziosa per confermare, ancora una volta, che il futuro del lavoro non è solo una questione di efficienza. È una questione di presenza, relazione e intenzionalità.

Lo avrete capito, non siamo qui per dare risposte comode. Siamo qui per fare domande scomode—con metodo, con ironia, con curiosità vera. Perché il modo in cui lavoriamo ha un impatto enorme su come pensiamo, come ci relazioniamo, come immaginiamo il futuro. E poiché stiamo uscendo da anni di modelli rigidi e finti paradigmi su produttività e disconnessione, allora è il momento di chiedersi: che tipo di lavoro (e ufficio) vogliamo progettare, se il lavoro (e l’ufficio) è dove passiamo gran parte della vita? Scopriamolo insieme.


Gli uffici modellano le città? Come un luogo può influenzare lavoro e stile di vita

La posizione di un ufficio non è solo un puntino sulla mappa: definisce come le persone lavorano, interagiscono e vivono. È l’epicentro delle routine quotidiane, un hub per il networking, per attrarre talenti e per costruire la cultura aziendale.

E la sua posizione all’interno della città? Conta. Eccome se conta. Perché c’è un’enorme differenza tra lavorare in una torre di vetro a due passi dal distretto finanziario e passare le giornate con startupper in felpa in una fabbrica riconvertita a hub creativo. Non prendiamoci in giro: non è la città a dare il tono. È il quartiere. E anche se non c’è una risposta giusta o sbagliata, è fondamentale capire che scegliere dove aprire un ufficio non è solo una decisione immobiliare ma una scelta strategica. Da Milano a Roma, fino a Lisbona, ci sono quartieri che stanno riscrivendo le regole del lavoro. Diamo un’occhiata insieme.

“Milan l'è un gran Milan”

Lavorare a Milano può significare tante cose diverse. Potrebbe voler dire affrontare ogni giorno un percorso a ostacoli fatto di traffico, riunioni a colpi di espresso e pranzi mangiati di corsa sotto i grattacieli di Porta Nuova. Oppure potrebbe approcciare un ritmo più disteso, tra parchi urbani e uffici hi-tech lungo i Navigli. La città è un patchwork di culture del lavoro, definite dai suoi quartieri: Chinatown, per esempio, si sta evolvendo in un melting pot di uffici (oltre che incubatori di ravioli), mentre Lorenteggio si sta scrollando di dosso il passato industriale per abbracciare un nuovo tipo di energia imprenditoriale. Un esempio concreto? La sede di Niterra all’L Building, Lorenteggio Business Center. Un tempo zona industriale, oggi è un hub strategico per aziende in cerca di spazi smart, connessioni solide e infrastrutture flessibili. L’ufficio Niterra è pensato per massimizzare collaborazione e benessere, con ambienti adattabili e soluzioni sostenibili. Una scelta che rispecchia alla perfezione la trasformazione del quartiere: da periferia produttiva a nodo centrale del business contemporaneo.

Roma: quando l’ufficio incontra la Grande Bellezza

Roma è tante cose, ma statica? Neanche provandoci. Certo, lavorare in un palazzo storico con vista sul Colosseo ha il suo fascino (fino a quando non ti blocca un corteo o una troupe cinematografica). Ma oggi il vero fermento è altrove. Quartieri come EUR e Ostiense sono diventati il centro di gravità del business romano, grazie a infrastrutture moderne, spazi di lavoro di nuova generazione e un ecosistema aziendale in piena espansione. Basta guardare l’ufficio di JPMS al 23/31 EUR Center. Uno spazio che incarna pienamente lo spirito dell’EUR: corporate, ma mai noioso. L’ufficio è progettato per offrire la massima efficienza operativa, con layout modulari, infrastrutture digitali avanzate e un design funzionale che lo rendono un esempio da manuale di come un’azienda possa prosperare integrandosi con il proprio quartiere. Per chi ci lavora, il futuro del business è già cominciato (senza rinunciare al caffè in piazza Marconi).

Lisbona: tra start-up, surf e uffici ibridi

Dimenticate l’ufficio tradizionale: a Lisbona si lavora ovunque, da spazi di co-working vista fiume a ex fabbriche rinate come hub creativi. La città è diventata il laboratorio europeo del lavoro flessibile, tra start-up che riscrivono il concetto stesso di “headquarter” e quartieri che fanno del dinamismo una routine quotidiana. Un esempio? La sede di un cliente confidenziale del lusso presso l’Oriente Green Campus. Situato nel Parque das Nações, un quartiere nato dal recupero di un’ex zona industriale, l’ufficio fa parte di un ecosistema in cui business, vita residenziale e spazi verdi convivono in perfetto equilibrio. L’interior design riflette questa visione: ambienti ibridi, materiali sostenibili e layout pensati per stili di lavoro fluidi e moderni. Se il futuro del lavoro è flessibile, qui lo stanno già vivendo da un pezzo.

Quartiere giusto, cultura giusta

Il messaggio è chiaro: le città influenzano la strategia aziendale, certo, ma soprattutto plasmano il modo in cui viviamo il lavoro. Quindi, per tutte le aziende alla ricerca della loro prossima sede, la domanda non può limitarsi a “quanto costa al metro quadro?”. La vera domanda è: dove voglio che le mie persone si presentino ogni giorno? E, altrettanto importante: che tipo di cultura del lavoro voglio costruire? Perché, alla fine, il quartiere giusto non ospita solo un ufficio: plasma le persone che ci lavorano dentro.


Biophilic Office: Perché il futuro del lavoro è più caring che mai

Vi è mai capitato di entrare in ufficio e sentirvi subito... prosciugati? Aria viziata, neon impietosi, scrivanie ammassate come in una catena di montaggio. E poi ci stupiamo se la creatività prende il volo. Ma ecco che arriva il design biofilico: un modo intelligente (e ormai indispensabile) di progettare spazi che non solo funzionano ma respirano. Si parte con due piante in croce per fare scena, e si finisce per trasformare l’intero ufficio in un ecosistema vivente che migliora l’umore, riduce lo stress e fa girare meglio i neuroni. Non sono solo vibe: lo dimostrano anche i dati raccolti dal NHS Forest, secondo cui ambienti con elementi naturali migliorano la qualità del sonno, abbassano la pressione arteriosa e riducono drasticamente i livelli di ansia e cortisolo. Bastano anche solo dieci minuti immersi nel verde per notare una differenza tangibile nella percezione del dolore e dello stress. Altro che aromaterapia d’ufficio.

Più natura, meno burnout. Semplice, no?

Passiamo gran parte della vita tra quattro mura, immersi nella luce artificiale e nell’aria condizionata o “depurata”. Non dobbiamo stupirci se poi alle tre del pomeriggio sembriamo zombie davanti al monitor. Un ufficio progettato con ventilazione naturale, pareti verdi e luci che rispettano il ritmo circadiano non è solo più bello, è letteralmente più sano. L’aria è più pulita, la testa più leggera, e le palpebre decisamente meno appesantite. 

Ma non è tutto. Anche solo una manciata di alberi o una striscia di cielo fuori dalla finestra possono fare miracoli per il nostro benessere. Lo dice la scienza, e il cervello lo sa: un brindisi a questo. Secondo il programma “Green Space for Health”, gli spazi verdi regolari migliorano l’umore e stimolano la funzione immunitaria. Le persone si sentono più connesse, più energiche, più serene. E meno inclini a lanciare il mouse contro il muro (un applauso!) E l’acqua? Sottovalutatissima. Fontane e pareti d’acqua non sono solo da Instagram, ma abbassano il rumore di fondo e migliorano il comfort acustico. Inoltre riducono il carico cognitivo dopo attività mentali impegnative come sopravvivere a tre call consecutive senza buttare il pc fuori dalla finestra.

Meno plastica, più neuroni attivi

Il design biofilico non è solo una questione estetica. È (soprattutto) una questione di sostenibilità. Legno massello, materiali riciclati, sistemi a basso consumo: chi sceglie questa strada non solo riduce l’impatto ambientale, ma migliora la vita quotidiana di chi lavora. Che, giusto come reminder, deve essere una priorità. Il vero punto di svolta? La flessibilità. Un ufficio biofilico non è mai statico: cambia forma, si adatta. Spazi modulari che mutano funzione nell’arco della giornata, angoli dedicati alla concentrazione che diventano sale riunioni improvvisate, zone relax che fanno da scintilla alla creatività. E poi c’è il tocco. Letteralmente. Il cervello reagisce meglio a materiali naturali: legno grezzo, pietra, tessuti organici. È inciso nella pietra: meno plastica, più texture autentiche. E il vantaggio è duplice: le ricerche del Community Forest Trust (partner del NHS Forest) confermano che l’interazione quotidiana con materiali naturali stimola la neuroplasticità, migliora la memoria a breve termine e favorisce l’adattabilità mentale. Non male, per un tavolo in legno grezzo, vero?

Produttività, coinvolgimento, relazioni. Lo spazio in cui lavoriamo non è neutro, ma plasma il nostro modo di pensare, di comunicare, perfino di relazionarci. Un ufficio biofilico non è solo “nicer to look at”: è un posto dove ci si sente meglio, si collabora di più, si lavora meglio. Il futuro del design uguale a “più scrivanie in meno metri quadri”? Tutt’altro. È creare spazi dove le persone hanno voglia di stare, non solo perché sono costretti. All’interno degli ospedali, alcuni pazienti con la camera affacciata su un paesaggio naturale guariscono prima e con meno farmaci. Immaginate cosa potrebbe fare un giardino pensile per il vostro team finance in periodo di bilancio. 

E se questo significa buttare giù qualche cubicolo per far posto a un giardino interno… beh, abbiamo appena trovato il set perfetto per il prossimo happy hour.