Il comfort dei limiti

C’è una strana forma di pace nei limiti. Forse perché ci ricordano che tutto, perfino il senso di libertà, ha bisogno di una forma. In architettura come nella vita, i vincoli non sono solo barriere, ma ciò che permette al pensiero di diventare progetto: il muro che definisce lo spazio, la regola che guida la creatività, il tempo che impone una fine. Pensavamo fosse costrizione, invece è questione di ritmo.

Il limite come cornice

L’architetto e designer finlandese Alvar Aalto diceva che l’architettura nasce dal rispetto per il materiale, e che il materiale, per sua natura, impone un limite. Pensiamo alla curvatura possibile del legno, la resistenza del mattone, la trasparenza del vetro. È proprio la materia, con le sue regole e la sua resistenza, a trasformare l’idea in forma. Lo stesso vale per la mente: le neuroscienze mostrano che un numero finito di possibilità favorisce il focus e abbassa lo stress decisionale. Troppe opzioni, troppe aperture, e il cervello va in tilt. Il limite, allora, diventa un alleato cognitivo: la condizione che ci permette di scegliere, ordinare, creare.

Contenere per respirare

E se si trattasse di ribaltare la prospettiva? Viviamo in una cultura che ci chiede costantemente di espanderci: produrre di più, connetterci di più, aprirci sempre di più. Eppure il vero benessere nasce spesso dal contenimento. Come in un giardino zen giapponese, dove il confine non chiude ma orienta lo sguardo, anche gli spazi di lavoro possono essere pensati come ecosistemi limitati ma generativi: non tutto ovunque, ma il giusto dove serve. Applichiamolo a un pensiero potenzialmente diffuso come “ah, che bello, adesso lavoro dal divano”. Ma poi da quel divano ci lavorate bene, davvero? La libertà totale funziona solo finché esiste un contesto che la contiene: un frangente di tempo, una postura, una soglia che distingue il lavoro da quello che non lo è. Contesto significa vincolo ( = alcune cose posso farle, altre no) e proprio per questo posso concentrarmi, produrre, per poi respirare.

La misura è un atto creativo

C’è della bellezza nel progettare con misura: decidere dove fermarsi, quanto spazio lasciare, quanto tempo dedicare. È un gesto etico prima ancora che estetico. Il limite diventa un segno di cura, una soglia che protegge in primo luogo noi stessi. 

E forse il vero lusso, oggi, è abitare dentro un perimetro pensato: uno spazio che non ci spinge verso l’infinito, ma che ci invita a ritrovare la nostra personale forma di raccoglimento. Ripetiamo insieme: la libertà assoluta disorienta, il limite accoglie.


La scienza dell’appartenenza

In una scena di Will Hunting - Genio Ribelle (1997) un intenso Robin Williams, nei panni dello psicologo, dice a un giovanissimo Matt Damon:

“You’re afraid of what you might become if you let someone in.” Hai paura di cosa potresti diventare se lasci entrare qualcuno.

Non è, solo, una battuta che si riferisce a un genio difficile da domare. È una frase che parla di fiducia: di quanto sia complesso concederla, aprirsi, trovare il proprio spazio. Sul lavoro succede di frequente. Ci muoviamo tra team, call, progetti condivisi, eppure spesso rimaniamo ai margini emotivi di ciò che costruiamo. Perché appartenere significa lasciarsi vedere con la propria voce, vulnerabilità e presenza, ma non sempre siamo disposti a farlo.

Più che empatia: sicurezza psicologica

Ed ecco che torna utile il concetto di psychological safety, coniato nel 1999 da Amy Edmondson, docente di Leadership and Management ad Harvard: la convinzione che un gruppo funzioni meglio quando ognuno si sente libero di esporsi, sbagliare, proporre. Sicurezza, non comfort: non si tratta di eliminare il rischio, ma di creare un contesto in cui il rischio sia sostenibile. Dove la fiducia diventa una piattaforma, più che una promessa. Perché se la paura di essere giudicati blocca l’espressione, la sicurezza di poter contribuire la moltiplica. È proprio da questa consapevolezza che nasce Emotion Based Working (EBW), l’approccio sviluppato da Altis per progettare spazi a partire dalle emozioni che devono sostenere. EBW traduce in metodo ciò che spesso resta intangibile: la relazione tra architettura e stati emotivi. Costruire luoghi in cui sentirsi parte, dunque, significa dare forma a fiducia, empatia e identità condivisa.

Misurare l’imponderabile

Ma quindi si può misurare il “sentirsi parte”? Più o meno, sì. Le neuroscienze parlano di ormoni come ossitocina e dopamina; la psicologia, di motivazione; il marketing di engagement. Ma il vero indicatore resta umano: la disponibilità spontanea a restare, contribuire, prendersi cura. Nei progetti di Altis questo si traduce in spazi che favoriscono l’incontro, ma anche il riconoscimento individuale. Zone comuni, sì, ma anche nicchie personali: perché l’appartenenza collettiva si costruisce solo se ognuno trova il proprio posto, fisico ed emotivo. 

Appartenere, in fondo, non è uno stato. È un verbo in continua coniugazione. Un lavoro quotidiano, silenzioso, di cura del contesto. Perché nessun open space, da solo, basta a farci sentire parte di qualcosa, ma uno spazio pensato per le persone può ancora farci dire, con sincerità, “qui sto bene”.

È una riflessione che senti anche un po’ tua? Contattaci a [email protected] e parliamone insieme.


Manuale di manutenzione mentale

Prima di leggere questo articolo, facciamo una breve verifica: una sorta di “tagliando interiore”, sotto forma di checklist (quasi) seria, da consultare ogni qualvolta si attivi la fase di surriscaldamento.

1) Hai spento le notifiche o continui a lavorare dentro al rumore?

2) Casella mail a zero, ma anche le energie? È ora di un riavvio

3) Se la sedia sembra scricchiolare… forse sei tu che hai bisogno di stiracchiarti

4) Ultima pausa mentale: non te la ricordi? Allora è già ora di farla

5) Fissare lo schermo per schiarirsi le idee raramente funziona

6) Il cervello funziona a ossigeno, non a caffè

7) Cinque minuti di camminata risolvono più di un’ora di riunione

8) Multitasking: il modo più veloce per fare tre cose male in una volta sola

9) Il Silenzio non è vuoto: è parte del reset

10) Se stai leggendo questa lista durante una riunione, complimenti: hai appena trovato il minuto più produttivo di tutta la giornata

Se almeno una risposta ha suscitato una riflessione, forse vale la pena indagare più a fondo. Perché ogni giorno l’architettura progetta spazi, verifica impianti, controlla certificazioni e protocolli di sicurezza, ma è davvero in grado di “manutenere” le menti che li abitano? Il cervello, dopotutto, è una macchina di precisione. E come tutte le macchine, se non viene curata, si inceppa.

Pensiero, versione 2.0

L’ingegneria chiama manutenzione preventiva l’insieme delle azioni che servono a evitare il guasto. Tradotto nel mondo del lavoro significa imparare a leggere i segnali prima che diventino blocchi: sovraccarico informativo, calo di attenzione, riunioni senza scopo, multitasking patologico. Altis lavora anche su questo piano, quello della progettazione cognitiva, perché uno spazio funziona solo se chi lo abita è in grado di farlo bene. La manutenzione mentale è a tutti gli effetti un gesto tecnico e umano: una revisione periodica del modo in cui pensiamo, collaboriamo, agiamo.

Lubrificare i circuiti

Come l’olio nei motori, anche la mente ha bisogno di fluidità. Pause brevi e regolari, cambi di postura, luce naturale, micro-movimenti: elementi che il design può favorire e che la neuroscienza conferma come essenziali per la performance. Il pensiero non si rigenera sotto stress continuo: ha bisogno di frizione controllata e di punti di raffreddamento. Spazi silenziosi, routine di decompressione e momenti di ricalibrazione, come un semplice respiro consapevole, sono parte della manutenzione quotidiana.

Riparare senza sostituire

Nell’industria si tende a sostituire ciò che si rompe. Nelle persone, invece, è più intelligente (ed etico) riparare. La manutenzione mentale significa riconoscere gli attriti: un team che comunica male, una leadership troppo “on”, un’organizzazione che non lascia spazio al recupero, e intervenire in modo chirurgico, non punitivo. È un cambio di paradigma: dal culto della produttività alla cultura della durata.

La manutenzione mentale è un atto di cura progettuale che Altis considera parte del metodo: Consult, Design, Deliver, utile anche o soprattutto quando il cantiere è ancora nella nostra mente. Per saperne di più, scrivici a [email protected].


La finestra come orizzonte

Se chiedessimo ad Alfred Hitchcock la sua idea di finestra, probabilmente non si soffermerebbe sull’estetica quanto piuttosto sulla percezione. In “Rear Window” (“La Finestra sul cortile”, 1954) la finestra diventa un varco narrativo: racconta l’ossessione del guardare fuori e l’illusione che ci sia sempre una vita più interessante dall’altra parte del vetro.

E noi, quanto tempo passiamo a guardare fuori dalla finestra? Un gesto universale, che sa di respiro e di libertà, che compiamo per ritagliarci un momento di pausa e di evasione. La finestra, in ufficio come a casa, non è un semplice infisso, è un comando emotivo: il nostro Ctrl+Alt+View. Uno strumento che cambia il modo in cui lavoriamo, pensiamo e ci percepiamo.

L’affaccio come palestra mentale

Il punto è che guardare fuori interrompe la spirale del multitasking e apre uno spazio nuovo. Neuroscienze alla mano: l’affaccio riduce i livelli di cortisolo, stimola la creatività laterale e abbassa la percezione dello stress. Non è un vezzo, ma biochimica. Non a caso le aziende che investono in uffici panoramici ottengono risultati migliori in engagement e performance.

Dal corner office al seminterrato

Ma non tutte le finestre sono uguali. Lo sappiamo: c’è chi si affaccia su skyline da cartolina e chi si ritrova con vista parcheggio o muro di cemento. Eppure, anche qui il cervello fa la sua parte. Qualsiasi collegamento visivo con l’esterno, persino un albero spelacchiato o un corvo sul cornicione, funziona da reminder che il mondo va avanti anche oltre l’Excel che abbiamo davanti agli occhi. E non conta solo il panorama, ma la possibilità di avere un orizzonte, di percepire l’oltre (lo sappiamo, suonerà New Age… ma ha tutta la sua logica).

Quando la finestra non c’è

Se di finestre non ce ne sono, allora l’occhio se le inventa: un graffito sulla parete, uno screensaver tropicale, persino un corridoio illuminato diventano orizzonti sostitutivi. Funzionano? Fino a un certo punto. Senza accesso alla luce naturale e al contatto visivo con l’esterno, la produttività cala e il benessere psicologico si riduce drasticamente. Per questo il tema non è estetico, ma progettuale: ripensare i luoghi di lavoro significa anche decidere come e dove aprire finestre.

La finestra, insomma, è molto più che uno sguardo sul mondo: è un’interfaccia tra dentro e fuori, tra concentrazione e fuga, tra quotidiano e sogno. Non risolve tutti i mali del lavoro contemporaneo, certo. Ma resta un elemento fondamentale del nostro wellbeing quotidiano. Per il resto, vale la lezione di Hitchcock: il fuori che osserviamo è solo un pretesto, perché la vera scena si svolge sempre dentro di noi.


Il cantiere invisibile

Ogni progetto architettonico ha due facce: quella che appare, fatta di forme e materiali, e quella che resta dietro le quinte. Non parliamo di gru e caschetti, ma di quella zona grigia fatta di permessi, incastri logistici, convivenza di squadre di lavoro e gestione degli imprevisti. È il lato invisibile del costruire: quello che non compare nei rendering ma che decide le sorti del progetto.

La burocrazia non è un dettaglio (Ma dai?)

Altro che cemento armato: il vero muro iniziale è fatto di carte bollate, autorizzazioni, normative. Non il pezzo più glamour, certo, ma senza quello il resto non parte. E qui non basta compilare moduli: serve leggere le pieghe del sistema, anticipare le frizioni, usare i vincoli come bussola. In altre parole: il backstage legale è già parte del progetto.

Logistica: il Tetris che nessuno immagina

Un cantiere non è solo costruzione: è una coreografia di materiali, attrezzature e persone. Quando la logistica funziona, nessuno se ne accorge; quando non funziona, tutti se ne ricordano. Il dietro le quinte è un esercizio di sincronia: coordinare fornitori, gestire ingressi, rispettare orari. Un’arte meno tangibile, ma decisiva.

Gli imprevisti non sono imprevisti

In teoria sono ostacoli, in pratica sono la normalità. Ritardi, errori di fornitura, imprevisti strutturali: ogni cantiere li conosce. La differenza la fa la preparazione. Leggere i vincoli in fase di progetto, anticipare le criticità e governarle fino alla consegna è ciò che distingue un approccio meno organizzato da un metodo solido. Noi lo chiamiamo Consult – Design – Delivery ed è efficace perché mette in sequenza ciò che di solito resta scollegato: leggiamo i requisiti reali e le regole del contesto prima di disegnare, progettiamo scelte che semplificano la logistica e riducono gli intoppi, e in consegna coordiniamo tempi, attori e imprevisti come un’unica regia.

Se volete scoprire come Altis tiene insieme il volto visibile e invisibile di ogni progetto, scriveteci a [email protected]


Open Plan, Closed Minds?

Sedie che si girano, scrivanie senza confini e la promessa di un brainstorming perenne. Così è stato venduto l’open space: la soluzione definitiva per rendere le aziende più collaborative, dinamiche, “cool”. E invece? Nella realtà la colonna sonora è fatta di rumore, distrazioni, telefonate in vivavoce e cuffie noise-cancelling come unica forma di autodifesa.

L’open space è diventato lo standard, ma non per questo funziona sempre. Anzi… spesso è vero il contrario.

Il mito della collaborazione perpetua

Negli anni Novanta e Duemila, gli open space hanno incarnato un’idea quasi utopica di ufficio: nessun muro, nessuna barriera, solo colleghi pronti a condividere idee come se fossero caramelle. In teoria, la formula sarebbe: più prossimità = più collaborazione. In pratica, più prossimità = più pausa caffè e chiacchiera. Il mito dell’interazione spontanea si è spesso trasformato in una trappola: l’open plan non garantisce scambio, ma interruzioni.

Rumore bianco o rumore nero?

Il problema non è solo organizzativo, ma cognitivo. Ogni interruzione spezza quelli che possiamo chiamare “cicli attentivi”: uno studio recente di Toggl Blog segnala che servono in media 23 minuti per recuperare la concentrazione persa dopo una distrazione. Moltiplichiamolo per dieci micro-distrazioni al giorno ed è chiaro perché i phone booth sono diventati lo status-symbol dell’open space. La promessa di energia collettiva si trasforma facilmente in rumore bianco, quando va bene, o in rumore nero, quello che brucia tempo e pazienza.

Non open vs closed, ma plural

Il punto non è scegliere tra muri o spazi aperti. La questione è più sottile e sta nel progettare spazi che rispettino i diversi registri cognitivi ed emotivi delle persone: c’è chi ha bisogno di isolamento per concentrarsi, chi di condivisione per generare idee, chi di movimento per trovare energia.

Qui entra in gioco il nostro approccio Emotion Based Working: leggere e progettare gli spazi a partire dalle emozioni che devono sostenere, non dal dogma architettonico del momento. Non esiste un modello unico, ma un ecosistema di possibilità. Stanze chiuse, aree ibride, angoli di privacy, zone fluide: il vero ufficio non è un dogma spaziale, ma un insieme di scelte consapevoli.

Vogliamo accettarlo o no?

L’open space è stato il simbolo di un’epoca, probabilmente passata. Lavorare bene ora significa costruire ambienti che sanno quando aprirsi e quando chiudersi. Perché, alla fine, la vera collaborazione va al di là dalla disposizione delle scrivanie: nasce dalla progettazione di uno spazio che rispetti i diversi modi di pensare e di lavorare.

Se questo tema vi intriga, scriveteci a [email protected], vi promettiamo una conversazione più stimolante di un brainstorming improvvisato davanti alla macchinetta del caffè.


Siete pronti per una nuova era del lavoro?

Settembre: voce del verbo “ricominciare”, ovvero il momento perfetto per rimettere sotto la lente un concetto che da anni fa scuola, l’Activity Based Working (ABW). Bello, flessibile, motivante… sulla carta. Ma cosa succede oggi, nel pieno di realtà ibride e generazioni che vivono il lavoro in modo sempre più soggettivo ed emancipato?

L’avete già notato anche voi, qualche crepa si vede. E visto che, come si suol dire “tre indizi fanno una prova”, abbiamo estrapolato tre dati chiave dalla Ricerca Proprietaria Altis che dimostrano perché è il momento di ripensare il modello così come lo conosciamo.

Primo indizio: dalla flessibilità alla dispersione

L’ABW nasceva con una promessa: più libertà, meno scrivanie fisse, più collaborazione. Ma la realtà post-pandemica ci ha restituito un paradosso: il 55% dei Gen Z dichiara di sentirsi solo o in difficoltà a costruire relazioni sociali ( McKinsey). Se l’ufficio non funziona anche come un collante umano, la flessibilità rischia di trasformarsi in dispersione, perché più libertà non equivale automaticamente a più benessere.

Secondo indizio: produttività sì, ma fino a un certo punto

Gli studi sull’ABW mostrano miglioramenti nell’attività fisica e nella soddisfazione, ma anche piccoli cali di produttività. Insomma, ci muoviamo di più, stiamo meglio… ma lavoriamo davvero meglio? È il classico trade-off: l’ambiente favorisce interazione e movimento, ma senza un disegno calibrato sulle persone, rischia di rallentare i processi invece di accelerarli.

Terzo indizio: il ROI non è più solo immobiliare

Per anni l’ABW è stato adottato per ridurre le postazioni e ottimizzare i metri quadri. Oggi, però, parlare di ROI significa guardare oltre l’occupancy: salute mentale, engagement, qualità delle interazioni. In un mondo ibrido, il vero valore dello spazio non è “quante scrivanie risparmi”, ma “quante connessioni generi”.

La prova: un passo avanti con l’EBW

Ecco perché in Altis parliamo di Emotional Based Working. Non un semplice acronimo da proporre all’Accademia della Crusca, ma un approccio solido, basato sui dati e sulle persone. Alla base c’è la nostra Ricerca Proprietaria, che esplora la relazione tra spazio e comportamento, indagando come l’ambiente fisico influenzi lo stato emotivo e le dinamiche sociali all’interno di un ufficio. È così che ogni progetto si fonda su evidenze scientifiche e su una reale comprensione di come lo spazio possa migliorare benessere e produttività.

Perché il lavoro di oggi è basato sulle emozioni piuttosto che sulla sola attività. Ed è tempo di progettare luoghi che lo riflettano, senza nostalgia per i vecchi modelli, e cogliere un’importante intuizione: il prossimo “upgrade” del lavoro non sarà solo tecnologico, ma anche emotivo.

Il resto della storia? Scriveteci a [email protected]. Ve la raccontiamo. [email protected]. We’ll tell you more.


Quando l’architettura smette di assecondarci

Siamo abituati a pensare allo spazio come a un alleato fedele: ti accoglie, ti protegge, ti facilita la vita. È la narrazione dominante dell’architettura contemporanea: “user-friendly” e “human-centred”. Ma se invece così non fosse? Se l’architettura fosse anch’essa piena di limiti, costrizioni e compromessi? 

Per poi scoprire che forse è proprio lì che si apre un varco creativo.

Lo spazio non è nostro schiavo

Abbiamo chiesto agli edifici di essere sempre più accomodanti: silenziosi quando serve concentrazione, flessibili quando serve collaborazione, persino “emozionanti” dai render in poi. Ma questa rincorsa all’architettura-servizio rischia di diventare sterile. Uno spazio efficace non è per forza una entità servizievole: a volte è un interlocutore. Che esprime un'opinione, o ci invita ad esperire una forma diversa dell’abitare. Pensiamo alle scale del MAXXI di Roma, o alla loft-mania che ha riqualificato l’intero quartiere di Soho a Manhattan. Spazi servizievoli? Tutt’altro. Spazi utili? Assolutamente si. Una costruzione può obbligarci a immaginare soluzioni diverse. E anche in questo può stare il suo valore.

L’attrito come risorsa

Un corridoio troppo stretto, un’ombra che cade sempre nel punto sbagliato, un materiale che invecchia più in fretta del previsto: fastidi? Forse. Ma anche stimoli. Perché l’attrito non è solo disagio: è la resistenza che ci costringe a muoverci, a cambiare traiettoria, a inventare nuove soluzioni. Abitare è sempre negoziare: se vogliamo il parquet di rovere, sappiamo che per forza si rovinerà col tempo. Non esiste altra soluzione fra materiale naturale e vita quotidiana: quel materiale porterà i segni del nostro passaggio.

Contro l’illusione del “tailor-made”

Viviamo nell’epoca della personalizzazione estrema, ma lo spazio non deve sempre replicare questa logica. L’illusione del “su misura” totale rischia di ridurre l’architettura a un’applicazione di comfort. Un ufficio che non ci coccola in ogni momento può diventare invece palestra di resilienza, stimolo a confrontarsi, terreno fertile per conflitti che generano nuove idee.

Non si tratta di una rinuncia alla funzione, ma un’apertura al conflitto creativo. Accettare che lo spazio non ci appartenga del tutto, che sia qualcosa con cui dobbiamo dialogare, anche scontrarci, significa restituirgli dignità e profondità. Perché è dal confronto che nascono le trasformazioni più radicali.


La mappa non è il territorio (ma ci aiuta a capirlo bene)

Lo diceva Gregory Bateson, padre del pensiero sistemico: “la mappa non è il territorio”. Ma senza mappe ci perdiamo: anche se non coincide con la realtà, la mappa, per definizione, è quella che ci permette di leggerla e interpretarla. E di muoverci al suo interno con consapevolezza. Il nostro lavoro in Altis non è solo disegnare un ufficio esteticamente bello, ma costruire strumenti che aiutino a orientarsi in uno spazio sempre più complesso, fatto di persone, comportamenti, regole, budget, emozioni…

"Consult-design-deliver": il metodo step by step di Altis, che non si limita al “progetto”, ma accompagna il cliente dall’ascolto fino alla consegna con la certezza che se si vuole trasformare davvero un ambiente di lavoro, non basta il rendering. Serve una mappatura intelligente, accessibile e rigorosa.

Pensiero sistemico: prima capiamo come funziona, poi cosa fare

Ogni spazio di lavoro è un ecosistema vivo. Non esiste un cambiamento isolato: se sposti il layout, cambiano i flussi; se cambi i flussi, cambiano i comportamenti; se cambiano i comportamenti, si trasformano performance, costi e perfino cultura aziendale. È l’effetto domino del lavoro contemporaneo. Per questo partiamo sempre da una lettura sistemica. Chiedere solo “quanti metri quadri vi servono?” risulta quindi riduttivo, epistemologicamente scorretto, per dirla come il maestro.

Fase 1: CONSULT — Osservare il territorio

La fase di Consult è la nostra esplorazione del territorio, dove raccogliamo dati. Kick-off e Needs Analysis ci servono per inquadrare sfide e opportunità. L’Occupancy Study ci dice chi usa cosa, quando e come. Con il Rapid Prototyping testiamo soluzioni in piccolo per trovare conferme in grande. E con la Building Analysis & Test-Fit capiamo che cosa è davvero realizzabile, rispettando ogni tipo di vincolo tecnico e normativo. Alla fine tutto confluisce nel Business Case, non il classico documento ma una bussola: ti dice dove ha senso investire, dove ridurre e come distribuire le risorse in modo intelligente.

Fase 2: DESIGN — Disegnare la mappa, modellando i comportamenti

Il Design non serve a rendere bello un ambiente: serve a fare nudge dei comportamenti desiderati. Il Concept Design traduce valori e obiettivi in linee guida concrete. Il Design Development affina le scelte, mentre il Technical Design le rende “cantierabili”. L’arredo non è scenografia: è strumento funzionale che orienta pratiche quotidiane. In parallelo, il Progressive Budgeting rende trasparente l’evoluzione dei costi: niente sorprese finali, ma scelte progressivamente misurate. Infine, il Contract definisce gli accordi in modo chiaro: budget, tempi e responsabilità. Qui la mappa è pronta, ed è dettagliata: non un’utopia, ma un documento operativo che tiene insieme estetica, funzione e sostenibilità economica.

Fase 3: DELIVER — Dal cantiere alle persone (con un controllo puntuale)

La fase di Deliver è quella in cui la mappa guida la costruzione del nuovo territorio. Qui non basta “costruire bene”: serve controllo continuo e capacità di gestire complessità. Permessi, procurement, sicurezza, costruzione, logistica dei traslochi: ogni passaggio viene monitorato con un controllo progressivo dei costi, che permette di intervenire subito in caso di deviazioni. C’è poi il tema più spesso trascurato: il Change Management. Perché gli spazi non cambiano nulla se le persone non li abitano diversamente. Comunicare, accompagnare, ascoltare: sono leve progettuali tanto quanto una parete divisoria o una scrivania regolabile.

Funziona? I dati dicono di sì.

Il metodo Altis funziona perché rompe lo schema tradizionale “a silos”: consulenti che passano la palla ai progettisti, che la passano agli acquisti, che infine la danno al general contractor. Ogni passaggio fa perdere tempo, informazioni e controllo. Noi uniamo tutto in un processo end-to-end, in cui i dati raccolti in fase di analisi restano vivi fino alla consegna finale. Il risultato è misurabile: tempi ridotti fino al 25%, budget rispettato, meno rischi. Ma soprattutto, progetti che hanno senso non solo sulla carta, ma nel quotidiano delle persone che li abitano.

Il metodo Altis nasce per accompagnare la complessità: ascoltare, modellare, testare, consegnare. Un passo alla volta, con le persone al centro. Se volete vedere la nostra mappa applicata al vostro territorio, scriveteci a: [email protected]


Architetti per l’estate: 5 maestri da portare sotto l’ombrellone

C'è chi in valigia mette un romanzo d’amore, chi un giallo, chi le parole crociate. Noi, cinque architetti. Nessun manuale tecnico, promesso. Solo un po’ di forma mentis da infilare tra l’asciugamano e la crema protezione 50. Zaha Hadid, Frank Lloyd Wright, Renzo Piano, Tadao Ando e Bjarke Ingels: cinque nomi che non suonano esattamente come una band estiva, ma che, ognuno a modo suo, hanno riscritto il nostro modo di abitare lo spazio. Del resto, che cos’è l’estate se non una bozza di vita con meno vincoli e più luce naturale?

Zaha Hadid: sbagliare con stile

Niente righello, né simmetrie. Solo curve, tensioni fluide e un pizzico di caos creativo. Zaha Hadid ci ha insegnato che si può essere radicali e glamour, sbilanciati e monumentali. I suoi edifici sembrano surfare sull’asfalto, con un’ostinazione visionaria che ha piegato cemento, software e pregiudizi. Ecco quindi uno spunto utile: l’imperfezione è una firma. E ogni angolo acuto può nascondere una grande intuizione.

Frank Lloyd Wright: fare spazio alla natura

La casa sulla cascata, il pavimento che “segue” il paesaggio, i muri che scompaiono. Wright ha costruito non sul territorio, ma con il territorio. Ha disegnato la prima vera casa moderna e l’ha messa a respirare nella foresta. Perché l’ambiente non è uno sfondo. È un co-protagonista. Se lo ignori, prima o poi ti presenta il conto (anche in bolletta).

Renzo Piano: equilibrio, modularità e pazienza

L’uomo che ha messo le rotelle ai musei (Pompidou) e la leggerezza al cemento (Centro Botín). Renzo Piano è il maestro del dettaglio invisibile, della tecnologia che non si vede, dell’architettura come ingegneria poetica. Come lui ci insegna, il progetto perfetto è quello che sembra semplice, ma ci sono voluti venticinque prototipi per arrivarci.

Tadao Ando: silenzio in cemento armato

Ex pugile, autodidatta, poeta del minimalismo. Tadao Ando scolpisce la luce, più che gli edifici. Ha reso spirituale anche il calcestruzzo, costruendo templi del vuoto e della quiete. Senza girarci intorno: a volte, togliere qualcosa è l’unico modo per far emergere l’essenziale (e questo vale anche con le notifiche silenziate del telefono).

Bjarke Ingels: l’archistar che gioca con i LEGO

La montagna artificiale, il condominio-pista da sci, il masterplan a forma di panda: niente è troppo per BIG (Bjarke Ingels Group). Ingels mescola ecologia, ironia e marketing senza farsene un problema. Ha capito che il futuro si costruisce anche pensando al tempo libero. D’altronde se la sostenibilità non diverte, non funziona. E un tocco di umorismo, spesso, è l’ingrediente segreto di un buon progetto.

Alla fine, lo sappiamo tutti: l’architettura è ovunque. Anche sotto l’ombrellone, tra una granita, un castello di sabbia e un pensiero laterale. E questi cinque maestri ci ricordano che progettare non è (solo) costruire. È scegliere come stare nel mondo, anche ad agosto.