Los Angeles e cosa resta dopo un incendio: uno spazio, o l'emozione?
Come molti ricorderanno, a gennaio, Los Angeles è stata vittima di un potente incendio, una catastrofe che ha segnato e ridisegnato la città, distruggendo oltre 10.000 edifici. Ma questi luoghi erano molto più di semplici strutture. Il linguaggio dell'architettura suggerisce come viviamo emotivamente gli spazi che abitiamo e come ne siamo trasformati. Ciò che mutuiamo dai bar all'angolo, dai ristoranti che ci nutrono, dagli uffici e co-working che ci ospitano, sono impressioni sensoriali, il che significa che quando quei luoghi vengono distrutti, anche una parte di noi se ne va.

Progettare per rassicurare, non solo per resistere
Sirene, evacuazioni, fumo. Chi resta, e ne esce illeso, sospende tutto: si incrina l’idea di continuità, quella su cui si regge il senso del quotidiano. E a quel punto la stabilità vacilla. Negli ultimi anni abbiamo imparato a parlare di spazi resilienti, flessibili, adattabili. Ma in situazioni come queste, non basta resistere. Serve rassicurare. Lo spazio fisico, anche quello condiviso, temporaneo, decentralizzato, può offrire più di una buona connessione Wi-Fi. Può diventare un contenitore emotivo, un punto fermo in cui ritrovare un po’ di ordine dentro il caos. Non è questione di estetica o arredamento, ma di intenzione progettuale: luce che non abbaglia, volumi che non schiacciano, suoni che non invadono. Design che ascolta, senza alzare la voce.
Ufficio Cognitivo: quando lo spazio tiene insieme
Non è un’utopia. È un nuovo standard possibile. Uno spazio che non si limita a contenere la produttività, ma accoglie la vulnerabilità, anche quando parliamo di una città che, in termini di superficie, rappresenta la più grande regione metropolitana degli Stati Uniti. Perché lo spazio non è solo un contenitore. È un alleato mentale. E nei momenti di fragilità collettiva, può diventare una delle poche cose che restano.
Non immaginatevi stanze zen con tè al matcha. È piuttosto un approccio progettuale che parte dalla domanda: “Cosa serve alla mente per potersi mettere o rimettere in moto?” Perché a differenza di strade e linee elettriche, i ricordi, così come i progetti, le speranze, i sogni non sono facili da ripristinare. “Form follows function”: la forma, si dice, segue la funzione. È una regola progettuale con cui conviviamo da sempre. Ma in casi come questo, quella funzione non è più solo operativa. È emotiva, percettiva, profonda. Qui, è la funzione a dover seguire l’emozione. E per rispondere alla domanda iniziale, serve un luogo di ascolto. Di decompressione. Di riorientamento.
Progettare fiducia
Quando attorno a noi tutto vacilla, che sia per un incendio o più semplicemente l’assordante rumore di fondo dell’incertezza quotidiana, non è la performance a salvarci. È la possibilità di sentirci ancora connessi, accolti, parte di qualcosa. Per questo, oggi, progettare uno spazio non vuol dire solo ottimizzare. Deve voler dire prendersi cura. E in fondo, progettare fiducia. È questa la lente che usiamo in Altis: un approccio psicosociale che parte dalle persone, dalle loro tensioni, dai loro bisogni impliciti. Non disegniamo spazi solo per lavorare bene, ma per stare bene anche quando lavorare può diventare difficile.
Di questo, e tanto altro, potete leggere in maniera più approfondita sul nostro sito, nella parte dedicata alla Ricerca Proprietaria Altis.
Dimenticate i benefit: la Gen Z vuole un (vero) motivo per restare
Non basta il tavolo da ping-pong. Né lo yoga sul rooftop, né la scritta “People First” sulla parete. La Generazione Z non è in cerca di benefit. È in cerca di senso. E la cosa più spiazzante? Non vogliono “cambiare il mondo” (spoiler: a quello ci pensano già il cambiamento climatico e i mutui a tasso variabile), hanno semplicemente smesso di cercare il posto fisso in cambio del posto giusto. La questione è semplice: se devo passare otto ore al giorno da qualche parte, voglio sapere perché. E voglio che il “perché” sia vero, non incorniciato in un manifesto aziendale polveroso o nascosto in un buono Deliveroo.

Le frasi che non ti aspetti (ma che forse dovresti conoscere)
“Io voglio restare in azienda. Se trovo un posto che mi tratta bene, non lo mollo.” (Chi l’ha detto? Francesco, 25 anni, ingegnere informatico. Ama Excel, odia i manager passivo-aggressivi.)
“Non ho bisogno di lavorare in costume da bagno. Mi va bene anche in ufficio, ma che sia umano.” (Chi l’ha detto? Chiara, 24 anni, marketing assistant. Ha smesso di credere nei “team building in barca” al secondo meeting su Zoom.)
“Voglio crescere professionalmente. Ma non a scapito della mia salute mentale.” (Chi l’ha detto? Edoardo, 23 anni, consulente. Medita ogni mattina. Ha mollato il fantomatico “posto fisso” perché l’aveva inchiodato alla scrivania.)
Cosa dicono i dati? (oltre a quello che vi ha già detto il vostro stagista)
Secondo studi recenti, la Generazione Z sta smontando, pezzo dopo pezzo, il vecchio modello di posto fisso. I segnali? Abbastanza chiari da far tremare i neon a soffitto:
- La Gen Z è già la generazione più rappresentata negli spazi di lavoro. Entro il 2030, costituirà il 30% della forza lavoro globale. Non è un pubblico “futuro”: è già qui.
- Il 78% preferisce ambienti ibridi, ma ben progettati. E no, la sala riunioni con le luci a led non conta
- Solo il 30% si sente coinvolto dal proprio ambiente fisico di lavoro. Tradotto: il restante 70% costretto in una stanzetta con un middle manager sul collo, sta già dando le dimissioni
- Cercano autenticità, scelte sostenibili, flessibilità reale. E spazi che diano un motivo per restare piuttosto che uno per fuggire.
La questione “salario adeguato” l’abbiamo già citata? In effetti, ci sarebbe anche quella. Morale della favola: non vogliono un’azienda diversa. Vogliono un patto più onesto.
Ok, ma quindi?
Serve meno paternalismo, più fiducia. Meno chiacchiere sulla resilienza, più ascolto reale. Meno ci prendiamo cura di te, più: dicci davvero che cosa ti serve. Cercano luoghi che parlino la lingua della coerenza, della trasparenza e, sì, anche della gentilezza.
Chi oggi riesce a progettare culture e ambienti così (flessibili ma chiari, caldi ma strutturati) si sta già portando avanti. Il resto? Può pure continuare a riempire l’ufficio di pouf colorati. Ma poi non si lamenti se nessuno resta seduto.
Curiosi di capire se il vostro ufficio parla alla Gen Z? Provate a rispondere a queste domande:
- C’è flessibilità vera o giusto il venerdì da casa?
- Lo spazio è progettato per lavorare bene o è solo arredato con un divano carino?
- I valori si leggono solo nei muri o c’è coerenza nei gesti?
- Si può scegliere dove lavorare dentro l’ufficio? where to work in the office
- Community o obbligo sociale?
- Il verde c'è davvero o è rappresentato solo da una cactus all'ingresso?
- Il management ascolta, o dice di ascoltare?
Se, leggendole, avete alzato gli occhi al cielo più volte, il problema non è la Gen Z. Il problema è che state ancora cercando di trattenerli con i buoni pasto. Invece, potreste iniziare con una domanda semplice: “Se oggi avessi 24 anni, resterei in questo ufficio?” Se la risposta è no, è il momento di fare spazio. Ma quello giusto.
Dalle sale riunioni a quelle per gli eventi: anche nel mondo della finanza è suonata la sveglia
Se vi dicessimo che uno dei settori più statici, formali, incravattati del mondo sta ripensando i propri uffici, cosa pensereste? È difficile da immaginare, eppure è così: il mondo delle banche, degli asset manager e delle società di consulenza si sta scrollando di dosso la moquette blu e la liturgia da report trimestrale per entrare in un’era nuova. Più fluida. Più vera.
Il nuovo mantra è adattabilità. Oggi gli uffici del settore finanziario iniziano ad assomigliare a set polifunzionali: uno spazio la mattina è usato per una riunione strategica, il pomeriggio ospita un workshop interno, la sera diventa il palco per un talk pubblico o un aperitivo con uno startup partner. Il perché è semplice: non si lavora più solo per fare. Si lavora anche per connettersi. E in un’epoca in cui i talenti evaporano appena sentono aria stantia, anche Goldman Sachs capisce che lo spazio fisico è uno strumento di relazione, non solo di controllo.

Ma, nella finanza, come si riconosce un ufficio che funziona nel 2025?
- Le scrivanie fisse sono un ricordo. Un po’ come i Blackberry
- Le pareti si muovono, i layout si riconfigurano. Il mindset? Anche
- Le sale non sono più riunioni.Sono relazioni:tra colleghi, reparti, partner e talenti che non si fanno incantare da un badge dorato
- La tecnologia serve per connettere, non solo per elaborare dati
- E soprattutto: c’è luce. C’è cura. C’è identità
Dalle sedi milanesi delle big four agli headquarters parigini dei grandi gruppi bancari, la parola d’ordine sarà sempre di più trasformabilità. Lo vediamo negli hub digitali nati post-pandemia. Nei piani terra che diventano piazze aziendali. Negli spazi eventi che strizzano l’occhio tanto al branding quanto alla retention. In fondo, un ambiente che si adatta, si apre, si trasforma, è come un buon investimento: rende nel tempo. E attira chi ha capito dove stare.
Caso studio: Il nuovo HQ di JP Morgan Chase a New York
JP Morgan sta costruendo il suo nuovo headquarters al 270 di Park Avenue, New York, e lo chiariamo fin da subito: non è un ufficio, è una dichiarazione d’intenti. Un grattacielo da sessanta piani che sostituisce la vecchia sede, pensato per incarnare il futuro del lavoro in finanza. Cosa c’è di interessante?
- Spazi flessibili, modulari, adatti a eventi, collaborazione, focus
- Piani riconfigurabili. Nessuna postazione fissa. Aree comuni che favoriscono l'incontro spontaneo e la serendipity,incluse terrazze verdi, spazi wellness, auditorium interni
- Sostenibilità integrata: sarà uno degli HQ più green di Manhattan, con consumo energetico inferiore del 30% rispetto agli standard
- Design pro-trasparenza: open floor plan, niente gerarchie spaziali visibili. Il management sta dentro, non sopra
Chi pensa che il workplace sia solo per HR, non ha capito niente. Nel 2025, lo spazio fisico è branding. È leadership. E se anche chi gestisce i soldi veri ha capito che senza cultura non c’è capitale umano, il workplace torna prepotentemente al centro. Ma non come cornice. Come strumento strategico.
Se vuoi saperne di più su come trasformare il tuo spazio di lavoro in un vantaggio competitivo, contattaci a info@altis-project.com
Ripensare il lavoro, migliorare il quotidiano: benvenuti nella Ricerca Altis
Cominciamo da una verità scomoda: passiamo più tempo in ufficio che a letto. E no, non è una metafora moderna. È statistica pura. Tuttavia, mentre il lavoro si è trasformato più volte di Madonna negli anni Novanta, il modo in cui progettiamo gli spazi in cui lavoriamo è rimasto spesso ancorato a modelli superati. La Ricerca Altis nasce per questo: per smettere di rincorrere “trend” da LinkedIn e iniziare a osservare il lavoro per quello che è davvero. E per come potrebbe essere.
Un laboratorio vivo, fatto di architetti, analisti, ricercatori, project manager e (sì) anche persone comuni, che ogni giorno entrano in un ufficio. La nostra idea? Usare la scienza per migliorare l’esperienza del lavoro. Ma senza perdere il diritto alla leggerezza che, come diceva Calvino: “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”. Perché il lavoro è una cosa seria, ma prenderlo sul serio non significa ingessarlo. Significa capire cosa funziona davvero, cosa stimola il cervello (e cosa lo spegne), cosa rende un team affiatato, cosa abbassa lo stress, cosa attiva la creatività.
Raccogliamo dati e testimonianze, mettiamo in discussione idee preconfezionate, e il risultato è un portale di contenuti, articoli, insight e provocazioni che raccontano il posto di lavoro… come non è mai stato fatto fino a oggi. Senza frasi motivazionali da planner del lunedì mattina. Senza mitizzare lo smart working come se bastasse lavorare in tuta per essere felici. La Ricerca Altis è qui per guardare in faccia il lavoro contemporaneo: un osservatorio per chi progetta spazi, ma anche per chi li abita, li subisce, li trasforma. Perché il nostro obiettivo non è solo analizzare il lavoro. È riscriverlo, con chi ha il coraggio di immaginarlo diverso.

Lo spazio di lavoro non è neutro (spoiler: no, non lo è mai stato)
Secondo i dati raccolti, quasi il 90% delle persone intervistate ritiene che lo spazio di lavoro influisca direttamente sul proprio benessere. E non solo: il modo in cui ci muoviamo in ufficio, le interazioni che attiviamo, perfino i percorsi inconsci che scegliamo per andare verso l’area break dicono molto più di quanto pensiamo su come lavoriamo (e viviamo). La Ricerca Altis parte da una premessa semplice: non si può progettare uno spazio senza osservare chi lo abita. E lo fa con strumenti rigorosi—interviste, dati biometrici, behavioural mapping—ma anche con una domanda molto umana: “Come ti senti, qui dentro?”. Dallo studio dei pattern comportamentali emergono insight utilissimi: ad esempio, aree nate per la collaborazione che vengono utilizzate per trovare isolamento, oppure angoli informali che diventano epicentro dell’innovazione spontanea. Perché lo spazio parla. E se lo si ascolta bene, può diventare alleato del benessere e della performance. Altis lo fa ispirandosi anche al PERMA Model della psicologia positiva, che individua cinque dimensioni fondamentali del benessere umano: Emozioni positive, Coinvolgimento, Relazioni, Significato, Realizzazione. Già troppi concetti? Forse, ma il nostro obiettivo è rendere questi elementi tanto desiderabili quanto realizzabili.
La produttività non si compra a ore con pacchetti promozionali
No, non siamo sempre meno produttivi. Siamo solo sempre più compressi. Tra notifiche, deadline e riunioni-fiume, ci si dimentica che il cervello non è un muscolo da palestra, ma un sistema complesso che ha bisogno di pause e stimolazioni. E invece ci ostiniamo a trattarlo come una calcolatrice da spremere fino all’ultimo impulso neurale. Ma la verità è che i momenti di inattività non sono tempo perso: sono tempo metabolico. Ecco perché nella nostra ricerca abbiamo analizzato i benefici reali di spazi non strutturati: zone in cui l’assenza di funzione è essa stessa la funzione. Downshifting, decompressione, micro-pause: lo si chiami come si vuole, ma resta il fatto che i team che hanno accesso a spazi informali si dichiarano più lucidi, più connessi e meno stressati. E no, non è solo una questione di design: è una questione di ritmo. O meglio, come direbbe qualsiasi musicista jazz: non è solo quello che suoni. È anche quello che lasci in silenzio.
Dalla ricerca al confronto: un dialogo interdisciplinare
Ci teniamo a dirlo, le riflessioni della Ricerca Altis non si fermano certo a belle parole. Lo scorso 21 marzo, in occasione del Conscious Cities Festival alla Triennale di Milano, abbiamo affrontato questi temi in un confronto aperto con neuroscienziati, architetti, designer e filosofi durante l’evento Regrounding: Reconnecting Bodies & Space. Un pomeriggio di scambi e provocazioni che ha reso visibile (e tangibile) ciò che da tempo osserviamo nei dati: non si può più parlare di progetto senza parlare di corpo, attenzione, percezione. Tra gli speaker, la Dottoressa Nicoletta Brancaccio, curatrice dell’evento e voce autorevole nella riflessione sul ruolo empatico e neurologico dello spazio. Un’occasione preziosa per confermare, ancora una volta, che il futuro del lavoro non è solo una questione di efficienza. È una questione di presenza, relazione e intenzionalità.
Lo avrete capito, non siamo qui per dare risposte comode. Siamo qui per fare domande scomode—con metodo, con ironia, con curiosità vera. Perché il modo in cui lavoriamo ha un impatto enorme su come pensiamo, come ci relazioniamo, come immaginiamo il futuro. E poiché stiamo uscendo da anni di modelli rigidi e finti paradigmi su produttività e disconnessione, allora è il momento di chiedersi: che tipo di lavoro (e ufficio) vogliamo progettare, se il lavoro (e l’ufficio) è dove passiamo gran parte della vita? Scopriamolo insieme.
Gli uffici modellano le città? Come un luogo può influenzare lavoro e stile di vita
La posizione di un ufficio non è solo un puntino sulla mappa: definisce come le persone lavorano, interagiscono e vivono. È l’epicentro delle routine quotidiane, un hub per il networking, per attrarre talenti e per costruire la cultura aziendale.
E la sua posizione all’interno della città? Conta. Eccome se conta. Perché c’è un’enorme differenza tra lavorare in una torre di vetro a due passi dal distretto finanziario e passare le giornate con startupper in felpa in una fabbrica riconvertita a hub creativo. Non prendiamoci in giro: non è la città a dare il tono. È il quartiere. E anche se non c’è una risposta giusta o sbagliata, è fondamentale capire che scegliere dove aprire un ufficio non è solo una decisione immobiliare ma una scelta strategica. Da Milano a Roma, fino a Lisbona, ci sono quartieri che stanno riscrivendo le regole del lavoro. Diamo un’occhiata insieme.

“Milan l'è un gran Milan”
Lavorare a Milano può significare tante cose diverse. Potrebbe voler dire affrontare ogni giorno un percorso a ostacoli fatto di traffico, riunioni a colpi di espresso e pranzi mangiati di corsa sotto i grattacieli di Porta Nuova. Oppure potrebbe approcciare un ritmo più disteso, tra parchi urbani e uffici hi-tech lungo i Navigli. La città è un patchwork di culture del lavoro, definite dai suoi quartieri: Chinatown, per esempio, si sta evolvendo in un melting pot di uffici (oltre che incubatori di ravioli), mentre Lorenteggio si sta scrollando di dosso il passato industriale per abbracciare un nuovo tipo di energia imprenditoriale. Un esempio concreto? La sede di Niterra all’L Building, Lorenteggio Business Center. Un tempo zona industriale, oggi è un hub strategico per aziende in cerca di spazi smart, connessioni solide e infrastrutture flessibili. L’ufficio Niterra è pensato per massimizzare collaborazione e benessere, con ambienti adattabili e soluzioni sostenibili. Una scelta che rispecchia alla perfezione la trasformazione del quartiere: da periferia produttiva a nodo centrale del business contemporaneo.
Roma: quando l’ufficio incontra la Grande Bellezza
Roma è tante cose, ma statica? Neanche provandoci. Certo, lavorare in un palazzo storico con vista sul Colosseo ha il suo fascino (fino a quando non ti blocca un corteo o una troupe cinematografica). Ma oggi il vero fermento è altrove. Quartieri come EUR e Ostiense sono diventati il centro di gravità del business romano, grazie a infrastrutture moderne, spazi di lavoro di nuova generazione e un ecosistema aziendale in piena espansione. Basta guardare l’ufficio di JPMS al 23/31 EUR Center. Uno spazio che incarna pienamente lo spirito dell’EUR: corporate, ma mai noioso. L’ufficio è progettato per offrire la massima efficienza operativa, con layout modulari, infrastrutture digitali avanzate e un design funzionale che lo rendono un esempio da manuale di come un’azienda possa prosperare integrandosi con il proprio quartiere. Per chi ci lavora, il futuro del business è già cominciato (senza rinunciare al caffè in piazza Marconi).
Lisbona: tra start-up, surf e uffici ibridi
Dimenticate l’ufficio tradizionale: a Lisbona si lavora ovunque, da spazi di co-working vista fiume a ex fabbriche rinate come hub creativi. La città è diventata il laboratorio europeo del lavoro flessibile, tra start-up che riscrivono il concetto stesso di “headquarter” e quartieri che fanno del dinamismo una routine quotidiana. Un esempio? La sede di un cliente confidenziale del lusso presso l’Oriente Green Campus. Situato nel Parque das Nações, un quartiere nato dal recupero di un’ex zona industriale, l’ufficio fa parte di un ecosistema in cui business, vita residenziale e spazi verdi convivono in perfetto equilibrio. L’interior design riflette questa visione: ambienti ibridi, materiali sostenibili e layout pensati per stili di lavoro fluidi e moderni. Se il futuro del lavoro è flessibile, qui lo stanno già vivendo da un pezzo.
Quartiere giusto, cultura giusta
Il messaggio è chiaro: le città influenzano la strategia aziendale, certo, ma soprattutto plasmano il modo in cui viviamo il lavoro. Quindi, per tutte le aziende alla ricerca della loro prossima sede, la domanda non può limitarsi a “quanto costa al metro quadro?”. La vera domanda è: dove voglio che le mie persone si presentino ogni giorno? E, altrettanto importante: che tipo di cultura del lavoro voglio costruire? Perché, alla fine, il quartiere giusto non ospita solo un ufficio: plasma le persone che ci lavorano dentro.
Biophilic Office: Perché il futuro del lavoro è più caring che mai
Vi è mai capitato di entrare in ufficio e sentirvi subito... prosciugati? Aria viziata, neon impietosi, scrivanie ammassate come in una catena di montaggio. E poi ci stupiamo se la creatività prende il volo. Ma ecco che arriva il design biofilico: un modo intelligente (e ormai indispensabile) di progettare spazi che non solo funzionano ma respirano. Si parte con due piante in croce per fare scena, e si finisce per trasformare l’intero ufficio in un ecosistema vivente che migliora l’umore, riduce lo stress e fa girare meglio i neuroni. Non sono solo vibe: lo dimostrano anche i dati raccolti dal NHS Forest, secondo cui ambienti con elementi naturali migliorano la qualità del sonno, abbassano la pressione arteriosa e riducono drasticamente i livelli di ansia e cortisolo. Bastano anche solo dieci minuti immersi nel verde per notare una differenza tangibile nella percezione del dolore e dello stress. Altro che aromaterapia d’ufficio.
Più natura, meno burnout. Semplice, no?
Passiamo gran parte della vita tra quattro mura, immersi nella luce artificiale e nell’aria condizionata o “depurata”. Non dobbiamo stupirci se poi alle tre del pomeriggio sembriamo zombie davanti al monitor. Un ufficio progettato con ventilazione naturale, pareti verdi e luci che rispettano il ritmo circadiano non è solo più bello, è letteralmente più sano. L’aria è più pulita, la testa più leggera, e le palpebre decisamente meno appesantite.
Ma non è tutto. Anche solo una manciata di alberi o una striscia di cielo fuori dalla finestra possono fare miracoli per il nostro benessere. Lo dice la scienza, e il cervello lo sa: un brindisi a questo. Secondo il programma “Green Space for Health”, gli spazi verdi regolari migliorano l’umore e stimolano la funzione immunitaria. Le persone si sentono più connesse, più energiche, più serene. E meno inclini a lanciare il mouse contro il muro (un applauso!) E l’acqua? Sottovalutatissima. Fontane e pareti d’acqua non sono solo da Instagram, ma abbassano il rumore di fondo e migliorano il comfort acustico. Inoltre riducono il carico cognitivo dopo attività mentali impegnative come sopravvivere a tre call consecutive senza buttare il pc fuori dalla finestra.

Meno plastica, più neuroni attivi
Il design biofilico non è solo una questione estetica. È (soprattutto) una questione di sostenibilità. Legno massello, materiali riciclati, sistemi a basso consumo: chi sceglie questa strada non solo riduce l’impatto ambientale, ma migliora la vita quotidiana di chi lavora. Che, giusto come reminder, deve essere una priorità. Il vero punto di svolta? La flessibilità. Un ufficio biofilico non è mai statico: cambia forma, si adatta. Spazi modulari che mutano funzione nell’arco della giornata, angoli dedicati alla concentrazione che diventano sale riunioni improvvisate, zone relax che fanno da scintilla alla creatività. E poi c’è il tocco. Letteralmente. Il cervello reagisce meglio a materiali naturali: legno grezzo, pietra, tessuti organici. È inciso nella pietra: meno plastica, più texture autentiche. E il vantaggio è duplice: le ricerche del Community Forest Trust (partner del NHS Forest) confermano che l’interazione quotidiana con materiali naturali stimola la neuroplasticità, migliora la memoria a breve termine e favorisce l’adattabilità mentale. Non male, per un tavolo in legno grezzo, vero?
Produttività, coinvolgimento, relazioni. Lo spazio in cui lavoriamo non è neutro, ma plasma il nostro modo di pensare, di comunicare, perfino di relazionarci. Un ufficio biofilico non è solo “nicer to look at”: è un posto dove ci si sente meglio, si collabora di più, si lavora meglio. Il futuro del design uguale a “più scrivanie in meno metri quadri”? Tutt’altro. È creare spazi dove le persone hanno voglia di stare, non solo perché sono costretti. All’interno degli ospedali, alcuni pazienti con la camera affacciata su un paesaggio naturale guariscono prima e con meno farmaci. Immaginate cosa potrebbe fare un giardino pensile per il vostro team finance in periodo di bilancio.
E se questo significa buttare giù qualche cubicolo per far posto a un giardino interno… beh, abbiamo appena trovato il set perfetto per il prossimo happy hour.
Apologia della noia. Chi la vince fra produttività e pausa caffè.
Vi siete mai sentiti in colpa per esservi allontanati dalla vostra scrivania? Come se cinque minuti di chiacchiere davanti alla macchinetta del caffè potessero scatenare un'apocalisse di scadenze mancate? In realtà, quei momenti “improduttivi” fanno più bene al vostro cervello di un'altra ora di scrolling di e-mail. La verità è che il tempo “non strutturato” non è tempo perso. È l’ingrediente segreto della creatività, dell'innovazione e, ironia della sorte, di una migliore produttività. Ma solo se lo spazio è progettato per far sì che quei momenti abbiano un significato.
Tempi morti: l'arma segreta del cervello
Siamo abituati a pensare che ogni secondo al lavoro debba essere considerato. Riunioni a ripetizione, schede aperte che si moltiplicano, la costante pressione di apparire occupati. Ma la scienza (e il buon senso) ci dicono il contrario: le idee migliori non nascono sotto luci fluorescenti in sessioni forzate di brainstorming. Nascono nei momenti di stallo, quando si va a prendere un caffè, quando si scambiano pensieri con un collega, quando si fissa un muro bianco finché non arriva il lampo di genio.
Le aziende che abbracciano queste finestre di tempo “non lavorativo” sono quelle che promuovono la vera innovazione. Il trucco? Creare spazi che incoraggiano la connessione spontanea e il “ripristino mentale”, senza sembrare un parco giochi aziendale.

Modi positivi per distrarsi
Non tutte le distrazioni in ufficio sono negative. Alcune alimentano la collaborazione, stimolano idee inaspettate e rendono l'ambiente di lavoro davvero piacevole. La chiave è l'equilibrio: uno spazio che supporta sia la concentrazione profonda che l'interazione, senza sforzo.
Layout invitanti che spingono le persone a conversare in modo organico. Aree di pausa che non sono divani tristi in un angolo dimenticato. Spazi in cui le persone possono ricaricarsi mentalmente senza sentirsi come se stessero sgattaiolando via.
Conclusione
Se la produttività equivalesse a timbrare il cartellino, ogni ufficio pieno di cubicoli sarebbe una centrale nucleare (spoiler: non lo è). Le aziende intelligenti non si limitano a riprogettare gli uffici, ma ridefiniscono il lavoro che vi si svolge. Perché il vero cambiamento non è spremere di più da ogni minuto, ma sapere quando far respirare la mente.
E se questo significa una pausa caffè in più? Siamo tutti d'accordo: facciamola.
Elon Musk e il ritorno in ufficio: un bagno di realtà per la cultura aziendale
Nel novembre del 2022, Elon Musk ha scosso il mondo del lavoro con la sua decisione di abbattere le politiche di smart working di Twitter e Tesla con la sua ormai celebre affermazione: “Se non sei d’accordo, puoi andare via.” La sua posizione inflessibile ha scatenato polemica nel mondo delle risorse umane e riacceso il dibattito su come i CEO possano costruire una cultura aziendale coesa e innovativa in un'epoca in cui lo smart working cerca di regnare supremo.
Ma ribaltiamo la prospettiva: invece di vederlo come una forzatura, cosa accadrebbe se l’ufficio diventasse un luogo irresistibile a cui le persone desiderano tornare? Immagina un ambiente di lavoro che metta al primo posto il benessere, la creatività e la connessione, trasformandolo da “punizione obbligatoria” a “scelta personale”. In Altis crediamo che la soluzione risieda nel design: spazi che pongono al centro il comfort psicologico, trasformando l’ufficio da un retaggio del passato ad un hub di ispirazione.
Da ”Macchina da lavoro” a ”Centro del benessere”
L'ufficio vecchio stile? Sterile, funzionale e francamente deprimente. Era tutto incentrato sul far produrre più lavoro alle persone. Dopo la pandemia, però, i dipendenti chiedono di più ai loro ambienti di lavoro. Tornare in ufficio non deve significare sacrificare benessere o flessibilità.
Le aziende dovrebbero concentrarsi sul reinventare gli uffici come spazi dinamici che supportano la salute mentale e fisica, dimostrando che il modello tradizionale può evolversi in qualcosa a cui le persone guardano con entusiasmo.

Trasformare l’ufficio in un luogo dove le persone vogliono stare
Se devi far tornare le persone in ufficio, almeno fai in modo che ne valga la pena. Crea un ambiente capace di stimolare, supportare e ispirare. Come?
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- Spazi che Promuovono il Benessere: incorpora luce naturale, piante e aree per il relax per ridurre lo stress e migliorare l’umore. Zone tranquille per la riflessione e spazi aperti per la collaborazione? Sì, grazie.
- Flessibilità nell'Ambiente: scrivanie regolabili, salotti accoglienti, sale riunioni insonorizzate—lascia che siano le persone a scegliere come lavorare. Dai loro il potere di sentirsi padroni di sé, non prigionieri.
- Enfasi sulla Connessione: progetta spazi che promuovono l'interazione umana, dai salotti informali alle cucine comuni. Costruisci un senso di comunità che nessuna riunione su Zoom potrà mai replicare.
- Focus sulla Sicurezza Psicologica: un ufficio è solo sicurezza fisica. Le persone devono sentirsi sicure nell’esprimersi e collaborare senza giudizi. Crea una cultura in cui l'apertura sia fondamentale.
Una Realtà Ibrida: l'Ufficio come Magnete, Non Come Gabbia
Il lavoro ibrido sembra voler diventare la nuova normalità, ma l'ufficio ha ancora un ruolo centrale. Adesso più che mai. Per chi si è abituato a lavorare da casa, tornare in ufficio può sembrare come tornare a scuola, ma è proprio questo che deve cambiare. Rendiamo l'ufficio più di un luogo di lavoro—rendiamolo un’esperienza. Che sia dinamica, che dia potere. Che sia divertente.
Conclusione
Elon Musk potrebbe pensare che gli ultimatum siano la strada giusta, ma se proprio vuoi costringere le persone a tornare in ufficio… almeno assicurati il viaggio ne valga la pena. Un ufficio ben progettato potrebbe fare la differenza tra un conformismo forzato e un entusiasmo genuino. Dopotutto, nessuno vuole vivere la routine quotidiana in un ambiente da incubo distopico.
Cambiare la realtà: lezioni da Inception a Regent Street
L'8 gennaio 2025, Regent Street, una delle arterie commerciali più vivaci di Londra, era stranamente silenziosa. Un falso allarme bomba aveva svuotato uffici e negozi, lasciando una pesante atmosfera di inquietudine. In pochi minuti, il ritmo ordinario di una mattina feriale si è trasformato in caos. Le persone si riversano nelle strade, incerte e ansiose, e le loro routine quotidiane sono sconvolte dall'ombra di una minaccia potenziale. Benvenuti in un nuovo film, dove un allarme sbagliato può trasformare in un thriller anche una mattina assolutamente ordinaria.
Questo incidente sottolinea una verità affascinante: la nostra percezione del pericolo può trasformare il modo in cui sperimentiamo la realtà. La manipolazione di questa percezione, sia intenzionale che accidentale, ha il potere di alterare emozioni, comportamenti e persino spazi fisici. È un fenomeno che ricorda in modo interessante il film Inception di Christopher Nolan, dove paesaggi onirici accuratamente costruiti rimodellano la mente dei protagonisti. Proprio come il team del protagonista Cobb costruisce mondi elaborati per influenzare i pensieri, il falso allarme di Regent Street ci ha ricordato come una semplice suggestione esterna—"qui c'è pericolo"—possa distorcere la nostra esperienza immediata di sicurezza.
Inception: perché creare architettura significa creare mondi
Nel film di Christopher Nolan, l’architettura dei sogni è uno strumento per impiantare idee, sfumando i confini tra realtà e illusione. Le strade di una città si piegano verso l'alto, un ascensore scende nel subconscio, e ciò che appare sicuro può improvvisamente diventare caos. Allo stesso modo, l'evacuazione di Regent Street ha rivelato quanto sia fragile il nostro senso di stabilità. Gli edifici non sono cambiati; le loro fondamenta erano solide come sempre. Ma per chi vi si trovava dentro, la percezione di una minaccia ha trasformato corridoi familiari in potenziali trappole e gli spazi di lavoro in zone di vulnerabilità. Addio fortezza invincibile: è tutto nella tua testa.
Il filo comune tra film e realtà risiede nella risposta della mente umana alla suggestione: in entrambe le situazioni, sia nei paesaggi surreali di un sogno che durante un’evacuazione reale, la nostra percezione della realtà è modellata tanto da indizi esterni quanto dalle nostre interpretazioni interne. Una singola suggestione—che sia una distorsione visiva in un sogno o il suono di un allarme in un ufficio—è sufficiente per alterare il nostro modo di interagire con l'ambiente. La capacità della mente di reinterpretare gli spazi in base alle minacce percepite dimostra quanto facilmente il familiare possa diventare incerto, rimodellando il modo in cui ci comportiamo e viviamo il momento.

La fragilità della sicurezza percepita
L’incidente di Regent Street invita a un’esplorazione più profonda: cosa ci fa sentire veramente al sicuro in ambienti come gli uffici? È la presenza di misure di sicurezza, la prevedibilità delle routine quotidiane, o qualcosa di più intangibile, come la fiducia in chi ci circonda? Forse ci siamo tutti ingannati: un paio di telecamere di sorveglianza e una checklist di prove antincendio non ci rendono invincibili.
La sicurezza, a quanto pare, è tanto una questione di percezione quanto di realtà. Un ambiente di lavoro può avere porte rinforzate, sistemi di sorveglianza e protocolli di emergenza, eppure un singolo allarme—vero o falso—è sufficiente per smantellare ogni certezza. D’altro canto, una cultura aziendale aperta e di supporto, dove la comunicazione è fluida e le persone si fidano dei loro leader, può infondere un senso di sicurezza anche nei momenti di fragilità. E così si scopre che il miglior sistema di sicurezza non è una bella serratura: è un team che comunica fra sé.
Costruire spazi resilienti, per oggi e per il futuro
Per contrastare la fragilità rivelata da incidenti come quello di Regent Street, le aziende devono dare priorità alla resilienza—non solo strutturale, ma psicologica. Ecco come:
- Comunicazione trasparente: il personale deve essere informato prontamente e chiaramente durante le emergenze, anche se queste si rivelano poi infondate. La fiducia si costruisce quando le informazioni circolano.
- Progettato per la flessibilità: gli uffici moderni possono avere spazi adattabili che evocano un senso di resilienza, favorendo inconsciamente un sentimento di comfort e sicurezza. Proprio come gli architetti dei sogni in Inception anticipano le interruzioni, gli architetti del mondo reale possono progettare pensando all'imprevedibilità.
- Coltivare la sicurezza emotiva: oltre alla sicurezza fisica, i luoghi di lavoro dovrebbero favorire ambienti in cui le persone si sentono psicologicamente sicure. La coesione e la fiducia del team mitigano la paura, permettendo alle persone di affrontare le incertezze con fiducia.
L’architettura della fiducia
L’incidente di Regent Street ci ricorda che i nostri ambienti sono tanto mentali quanto fisici. Come i paesaggi onirici stratificati di Inception, i nostri uffici esistono simultaneamente come luoghi di produttività e come tele per le nostre emozioni e percezioni. Comprendere questa dualità è il primo passo per creare spazi che non solo funzionano, ma che si adattano alla natura fluida dell’esperienza umana. Alla fine, la vera architettura è quella che costruisci tra le pareti della tua mente.
Quindi, la prossima volta che entri in un ufficio, considera questo: quale architettura invisibile sta modellando la tua esperienza? È il design dell'edificio o la convinzione condivisa che sia un luogo sicuro? Forse è un po' di entrambe, intrecciate in modi che stiamo appena iniziando a capire. O forse è solo la macchina del caffè: diciamocelo, quella è la vera rassicurazione di ogni luogo di lavoro.